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FOCUS - Riforme istituzionali e forma di governo

 La via italiana per la stabilità di governo e per la sua corrispondenza al voto popolare

Molte sono i motivi e gli interessi che muovono, ancora una volta, ad aprire una discussione sulla forma di governo più adatta alla peculiarità della situazione italiana. Fra questi non paiono trascurabili due dati statistici, che da tempo suonano come un campanello d’allarme. La statistica, del resto, rappresenta il luogo di incontro e di confronto fra le scienze sociali e le scienze esatte, fra l’esperienza e la ragione, fra il dato e il modello. Il primo dato con cui fare i conti è quello per cui, in questi settantacinque anni, i governi repubblicani hanno avuto una durata media di poco più di un anno. Un dato sconcertante, al quale ci si può assuefare, ma che a saperlo ascoltare parla da solo, e richiede all’accademia e alla politica senso di responsabilità. Né la circostanza attuale, in cui la prospettiva del governo in carica appare di legislatura, autorizza al disimpegno. La situazione è analoga a quella di un paziente con una patologia latente, che può tornare a manifestarsi. Il secondo dato da considerare è l’inesorabile calo dell’affluenza al voto. A partire dalle elezioni del 1979, la partecipazione alle consultazioni parlamentari ha subito un progressivo e quasi continuo calo: dal 93,4% del 1976, al 63,8% del 2022. Disinteresse, protesta, avversione verso la politica? In ogni caso l’astensionismo non è un buon segno per la democrazia, e neppure per la perdurante vitalità degli altri principi costituzionali, i quali non considerano la persona come un soggetto passivo dinanzi allo Stato, ma richiedono, al contrario, doveri di solidarietà politica, un’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese, nonché il dovere, per ogni cittadino, di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società… (segue)



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