Corte costituzionale 9 – 28 luglio 2025, n. 135, in G.U. n. 31 del 30 luglio 2025
Rimozione del tetto stipendiale al personale di magistratura: profilo relativo alla ritenuta cessata emergenza circa i pericoli di tenuta dei conti pubblici.
1. Con la sentenza n. 135 del 2025, in riferimento all’art. 108, secondo comma, Cost. e al principio di indipendenza della magistratura, di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., ha dichiarato la “illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, nella parte in cui indica il limite massimo retributivo nell’importo di euro 240.000,00 al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente, anziché nel trattamento economico onnicomprensivo del primo presidente della Corte di cassazione, che rappresenta il parametro per l’individuazione del tetto retributivo da parte di un d.P.C.m., previo parere delle competenti commissioni parlamentari”.
2. La Corte ha ritenuto che il limite massimo retributivo introdotto dall’art. 13, se in origine aveva introdotto una misura costituzionalmente tollerabile in ragione della sua temporaneità, è divenuto progressivamente incostituzionale una volta «palesata appieno la natura strutturale [della previsione]» (sentenza n. 178 del 2015), così incorrendo in una illegittimità costituzionale sopravvenuta e ponendosi ora in contrasto con il principio di indipendenza della magistratura, di cui agli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.
La pronuncia, che fa ampio richiamo al diritto comparato, ricorda che: a) la disciplina della retribuzione dei magistrati ha la finalità di «evitare il mero arbitrio di un potere sull’altro»; b) il «precetto costituzionale dell’indipendenza dei magistrati […] va salvaguardato anche sotto il profilo economico […] evitando tra l’altro che [i magistrati] siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti degli altri poteri» (principi «sono confortati dai lavori preparatori della Costituente», così. sentenza n. 223 del 2012).
Il consolidamento temporale della misura nei confronti della magistratura, secondo la Corte, illegittimamente sospende le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio» (sentenza n. 223 del 2012).
Senza considerare, nel concreto, l’effettiva capacità della norma censurata di assolvere, in modo che non sia del tutto marginale, al suo “fine prioritario” di contenere la spesa (finalità che la Corte ritiene non raggiunta, sulla base dei dati di rendiconto dello Stato 2015).
Circa la soluzione derivante dalla caducazione del tetto stipendiale, la Corte ha rilevato che rientra nella discrezionalità del legislatore: i) optare per un “tetto” onnicomprensivo, includendo in esso ogni forma di retribuzione, emolumento o indennità, purché siano preservati il trattamento retributivo dei magistrati e le indennità collegate alle loro funzioni; ii) delimitare il perimetro soggettivo del tetto retributivo.
3. In sintesi, la pronuncia sembra basarsi su due presupposti: il nesso tra livello della retribuzione e valore costituzionale dell’indipendenza della magistratura, da un lato, e, dall’altro lato, una sorta di cessata emergenza circa i pericoli di tenuta dei conti pubblici, che hanno costituito illo tempore il fondamento della normativa ora dichiarata illegittima.
Per i profili del presente Osservatorio ci si sofferma brevemente sul secondo fondamento della sentenza, (connesso ad un asserito, progressivo emergere di una illegittimità sopravvenuta per l’attenuarsi dell’emergenza finanziaria in materia di conti pubblici a giustificazione, a suo tempo, dell’approvazione della norma ora censurata). Al riguardo, va rilevato che la Corte mostra una certa contraddittorietà nella linea seguita.
Essa, nel ribadire nella sentenza che la “transitorietà” costituisce un requisito necessario a giustificare limitazioni stipendiali, anche del personale di magistratura, ha di recente confermato (cfr., ad esempio, sentt. n. 114/2025, n. 195/2024) la cogente portata della nuova governance europea, laddove viene peraltro anche rilevato “l’allungamento temporale delle misure di contenimento della spesa netta menzionate nel Piano strutturale di bilancio” (sent. n. 195/2024, punto 4.2.1. del diritto), che costituisce un parametro di contenimento delle risorse di cui lo Stato possa disporre.
Rispetto a ciò emerge però dalla pronuncia il superamento delle “condizioni difficili” della nostra finanza pubblica, con la conseguenza che diventa illegittima la permanenza della norma censurata, essendosi modificate le condizioni della sua giustificazione (nel senso della sussistenza, ora, di migliori condizioni della finanza pubblica).
Ora, che le condizioni della nostra finanza pubblica non permangano strutturalmente prive di pericoli e comunque non siano in tutto in sintonia con le regole europee lo dimostra per tabulas il fatto che il nostro Paese si trova attualmente sottoposto alla procedura per disavanzi eccessivi. Ma lo dimostra altresì lo stretto sentiero di crescita di spesa netta che il nostro Paese ha dovuto sottoscrivere con il Piano strutturale di bilancio dell’ottobre 2024, peraltro con valenza inderogabile di portata pluriennale, tenuto conto del vincolo della riduzione del rapporto debito/pil a fine periodo. Queste considerazioni valgono dunque a rendere meno certo il perno implicito su cui si basa la sentenza di accoglimento (che poi la sussistenza o meno delle condizioni di emergenza dei conti pubblici non possa costituire una valutazione riservata - in tutto o in parte - alla Corte costituzionale sembrano non prevederlo né l’ordinamento del nostro Paese né la citata nuova regolamentazione europea in tema di rientro dal debito pubblico).
Né vale in senso contrario l’eventuale argomento circa l’esiguità dei risparmi ottenuti dalla norma ora dichiarata illegittima, risparmi il cui accertamento manifesta, peraltro, notevoli difficoltà tecniche di calcolo che la Corte sembra agevolmente aver superato, affidandosi al mero richiamo a risultati di consuntivo 2015. Così come non sembra pienamente convincente l’argomento utilizzato dalla sentenza circa l’avvenuta esenzione dal tetto retributivo decretata per legge per alcune fattispecie, i cui effetti sono stati valutati, infatti, nell’ambito di quelli complessivi di cui alla medesima legge che ha disposto le esenzioni, come risulta per tabulas dai lavori preparatori.
Tutto questo, sotto diverso profilo, presenta ulteriori implicazioni: il carattere direttamente oneroso degli effetti della pronuncia[1] ne richiede infatti, inevitabilmente, l’inquadramento nel suddetto quadro di regole eurounitarie e di condizioni di finanza pubblica riguardanti il nostro Paese. In parole semplici, le nuove o maggiori spese cui la pronuncia dà luogo andrebbero conciliate con i tetti di spesa che il nostro Paese si è impegnato ad osservare.
In definitiva, rimane auspicabile che la giurisprudenza costituzionale non perda di vista, nel bilanciamento dei valori complessivamente accolti dalla Carta, anche quelli che fissano obblighi di adesione a vincoli di matrice eurounitaria in termini di finanza pubblica (artt. 81, 97, 117 e 119 Cost.), cui, peraltro, non possono non ritenersi astrette anche le pronunce che costano, segnatamente quelle della stessa Corte costituzionale.
[1] Come, peraltro, già avvenuto di recente (cfr., ad esempio, la recentissima sentenza n. 121 del 2025, la cui onerosità deriva indirettamente dall’affermazione del principio per cui il giudice non è sottoposto all’obbligo di copertura a fronte di un onere creato da una sentenza, al cui commento in questo Osservatorio si fa qui rinvio.
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