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NUMERO 7 - 02/04/2008

 Emanuele Rossi, “I partiti politici”

Ci vuole indubbiamente coraggio a scrivere oggi un volumetto di taglio costituzionalistico sui partiti politici: per varie ragioni, compreso il fatto che la materia di cui si tratta è in accelerata evoluzione. Il libro di Rossi ci riesce bene, anche perché segue, come il resto della collana di Laterza “La democrazia dalla A alla Z” lo schema didattico dell’Introduzione seguita da un dizionario delle parole chiave e infine da una Bibliografia ragionata. Uno schema che già di per sé dà l’idea di un cantiere in corso.  
Rossi parte dai lavori della Costituente e in particolare dalla forza di quella finalità di determinazione della “politica nazionale” a cui l’articolo 49 riconduce i partiti. Forte perché, per fare un esempio comparatistico, la Costituzione francese del 1958 riferisce invece la “politica nazionale” al Governo. Era lo specchio di una realtà, ci ricorda Rossi riprendendo Mortati, i partiti detenevano un quasi monopolio non solo nell’elaborazione delle risposte politiche dentro le istituzioni, ma anche nell’elaborazione delle domande nella società civile, “assumendo una valenza socializzante in senso generale”. Questi aspetti relativi al rapporto con la società sono stati certo superati dalla crescente complessità sociale e tuttavia per Rossi resta valida l’impostazione di fondo della nostra Costituzione per la quale i partiti sono mediatori necessari tra cittadini e istituzioni, evitando le suggestioni di un rapporto diretto tra i singoli governanti e masse indifferenziate, ciò che viene comunemente riassunto con l’espressione “democrazia plebiscitaria”.
Il punto è che la concreta esperienza che noi facciamo oggi dei partiti e del sistema che essi costituiscono fa fatica a realizzare un equilibrio tra il ruolo assolutizzante dei partiti dei primi decenni della Repubblica e le suggestioni plebiscitarie: quel punto di equilibrio che credo debba essere individuato nell’esperienza delle grandi e medie democrazie parlamentari europee e per il quale si può usare l’espressione di Duverger “democrazia immediata” in cui i partiti predispongono la scelta tra gli indirizzi e in cui poi il cittadino sceglie, senza che il ruolo di mediazione dei partiti degeneri in un mandato in bianco a loro affidato e costantemente rinegoziabile dentro un sistema oligarchico. Alcune evoluzioni recenti, in particolare con la rimessa in discussione delle coalizioni acchiappa-tutti e la spinta indubbia anche nel nostro Paese a reimpostare il conflitto nel sistema dei partiti intorno a grandi forze a vocazione maggioritaria sembrano andare in questa direzioni, per il momento sul piano politico, ma non è escluso che possano anche trovare sbocchi giuridici nella prossima legislatura.  

Rossi si dedica poi all’altra espressione chiave dell’articolo 49, il “metodo democratico” e ne richiama le tre principali interpretazioni, che colgono ciascuna una parte di verità. La prima è quella relativa alla coerenza tra l’ordinamento democratico nel suo complesso e le finalità perseguite dai partiti: ma qui il testo costituzionale è assai liberale e si limita in realtà ad applicare tale principio solo come eccezione, al divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista, sempre peraltro interpretata con grande cautela, col solo scioglimento di “Ordine nuovo” nel 1975. La seconda riconduce il metodo al rifiuto di comportamenti violenti o comunque in grado di alterare l’uguaglianza delle chances tra le forze politiche: da essa è sempre possibile trarre spunti anche positivi per la legislazione ordinaria. La terza è quella relativa alla democraticità interna dei partiti che, pur respinta alla Costituente con la bocciatura di un emendamento apposito, per il timore di un eccesso di controlli dei giudici sui partiti (il rischio che in nome della libertà nei partiti venisse limitata la libertà dei partiti) riemerge prepotentemente nella società e chiede agli studiosi di diritto e ai politici risposte operative conseguenti pur senza ignorare, come fa rilevare Rossi, che quel pericolo esiste ancora oggi. Qui resta valida l’indicazione dei primi anni’80 di Paolo Ridola secondo il quale vale la pena di concentrarsi non su una minuziosa legislazione su vari aspetti della vita interna del partito (che è peraltro di poco realistica approvazione ed efficacia, come nota Rossi) ma su una regolamentazione delle sue funzioni pubblicistiche, a cominciare dalla democratizzazione della scelta dei candidati alle elezioni. L’esito, quello del ricorso a primarie regolate per legge,sia pure con un certo margine di autonomia per le forze politiche che decidessero di muoversi nel quadro della legge (come avviene nella legge regionale toscana) consentirebbe di superare i limiti pratici delle primarie autogestite, ormai sperimentate su larga scala, ed anche l’alternativa tra liste bloccate preconfezionate dai vertici e il voto di preferenza che disgrega inevitabilmente i partiti. E’ certo però che non è possibile restare in quella forte ambiguità segnalata dallo scomparso Pietro Scoppola, e richiamata da Rossi, secondo cui i partiti hanno un ruolo decisivo nelle istituzioni, nel diritto pubblico, ma scelgono per loro stessi la forma più debole di regolamentazione privatistica, quella dell’associazione non riconosciuta, “alla stregua di un’associazione di filatelici o di giocatori di bocce”. 
     
Il volume mantiene una certa cautela su uno degli aspetti decisivi dell’evoluzione dei partiti, la formula elettorale, ricordando che la Costituente non fece un’esplicita scelta a favore di una canonizzazione della proporzionale, pur essendo evidente che essa allora avrebbe impegnato la legislazione elettorale e il complesso del sistema. Vengono segnalate alcune sentenze della Corte costituzionale favorevoli al proporzionalismo per le minoranze etnico-linguistiche e ci si chiede se si tratti di un principio estendibile ad una logica di protezione di altre minoranze. Fermo restando che a mio avviso questa estensione può essere limitata solo a quelle minoranze che come quelle linguistiche derivano da fratture tendenzialmente permanenti, cioè a quelle minoranze che per definizione non possono prima o poi diventare maggioranza, e per determinati livelli di rappresentanza (non necessariamente tutti), penso che l’interrogativo sulla formula elettorale vada riformulato in un duplice senso. In primo luogo l’alternativa non è tra formule proporzionali o maggioritarie, ma tra formule selettive e non selettive, laddove le prime intendono inserire correttivi tali da giungere a una scelta sostanzialmente diretta dei Governi, anche basandosi su una formula proporzionale, come si vede nel caso spagnolo, che coniuga la proporzionale di circoscrizione per le minoranze regionali e una logica di sproporzionale complessiva per spingere l’elettore a un voto per il Governo e non solo per la Camera. In secondo luogo la questione si riconnette a un’opzione di fondo: è opportuno o no realizzare una equilibrata “democrazia immediata”, evitando di oscillare in una transizione senza fine tra conati di restaurazione di una democrazia fondata su mediazioni post-elettorali tra partiti e suggestioni plebiscitarie? Se sì, come personalmente credo, la risposta è il consolidamento al centro della dinamica politica di partiti a vocazione maggioritaria, anche attraverso ben congegnati sistemi selettivi.               
 
Emanuele Rossi “I partiti politici”, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 193, euro 12,00



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