Per usare le parole di un autore (J. Brennan, Contro la democrazia, 2018), che recentemente ha riscosso un certo successo, sull’attuazione dell’art. 116, commi 3 e 4, così come modificati dalla legge Cost. n. 3/2001 (il cd. regionalismo differenziato) dovremmo smettere di comportarci da hooligan, tifosi sfegatati dell’una o dell’altra tesi politica, incapaci di ascoltare le ragioni dell’altro, e comportarci da vulcaniani, esaminando razionalmente tutti gli elementi della situazione data. Da vulcaniani, potremmo capire che, per una serie di errori, incomprensioni, forzature politiche e istituzionali, debolezze culturali, la partita è iniziata male e rischia di finire peggio, perdendo quella che potrebbe essere una importante occasione di modernizzazione del paese.
Alle spalle abbiamo molti errori. Il processo politico è iniziato con due leggi, nn. 15 e 16 del 2014, della Regione Veneto che prevedevano l’indizione di referendum regionali su sei diversi quesiti (vuoi che il Veneto diventi una Repubblica indipendente e sovrana; vuoi che la Regione del Veneto diventi una regione a statuto speciale; vuoi che una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi; vuoi che la Regione mantenga almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale; vuoi che il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non sia soggetto a vincoli di destinazione; vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?). Con la sentenza 118 del 2015, la Corte costituzionale, salvando l’ultimo quesito che evocava l’iter di cui all’art. 116, ha dichiarato illegittimi non solo i primi due quesiti, ma anche i tre vertenti sulla distribuzione finanziaria delle risorse, con l’argomento tranchant secondo cui “i quesiti in esame profilano alterazioni stabili e profonde degli equilibri della finanza pubblica, incidendo così sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica” (ma degli insegnamenti dati in quella sede dalla Corte ce ne siamo dimenticati troppo presto). Dopo la sentenza della Corte, due Regioni (Veneto e Lombardia) hanno indetto referendum regionali, che sono serviti solo a cavalcare la ricerca di un facile consenso, giocando su di un obiettivo che poteva essere raggiunto anche direttamente; mentre l’Emilia-Romagna si è accodata solo per non farsi scavalcare dalla Lega (rischio che comunque continua a correre). Nel 2018, poco prima delle elezioni, il governo Gentiloni, di centro-sinistra, ha firmato frettolosi protocolli sui procedimenti per l’autonomia differenziata, replicando l’errore compito nel 2001, quando, pochi giorni prima delle elezioni, il governo di centro-sinistra diede via libera - senza una minima trattativa - alla riforma del Titolo V. Nel silenzio della dottrina, che ha inizialmente pensato che la legge di approvazione delle intese fosse una legge meramente formale, vi sono poi stati mesi di trattative più o meno segrete tra governo nazionale e governi regionali; scontri politici continui, sia all’interno della maggioranza, che all’interno delle minoranze; gravi incomprensioni con il sistema degli enti locali, che è stato sostanzialmente aggirato; contrarietà di una buona parte del paese. Ancora oggi, rimangono gravi dubbi sostanziali sulle modalità di distribuzione delle risorse finanziarie necessarie per l’esercizio delle funzioni; e dubbi procedurali sul ruolo della legge statale, sull’atto da portare in approvazione, addirittura sui poteri del Capo dello Stato nella fase di promulgazione. Ma ormai, per insipienza, disattenzione o altro, siamo arrivati ad un punto da cui è difficile tornare indietro. Si aggirano infatti - più o meno clandestinamente - tre bozze di intese, fra il Governo e la Regione Veneto, tra il Governo e la Regione Lombardia, tra il Governo e la Regione Emilia-Romagna. E quotidianamente assistiamo a balletti all’interno della maggioranza sulla più o meno immediata approvazione in Consiglio dei Ministri al fine della presentazione in Parlamento; quotidianamente si alzano voci contrastanti sulle modalità di approvazione parlamentare e dai partiti di opposizione si minaccia il ricorso a strumenti giudiziali per impedire di escludere il Parlamento dal ruolo che - nella loro visione - gli spetta. Il rischio che si prospetta è quello della rissa e della conseguente paralisi, con effetti dannosi per tutti... (Segue)
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