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NUMERO 18 - 10/06/2020

Gli 8 minuti e 46 secondi che potrebbero cambiare l'America

8 minuti e 46 secondi, tanto è bastato al ginocchio dell’agente di polizia Derek Chauvin per togliere la vita a George Floyd; 8 minuti e 46 secondi che hanno ucciso un uomo disarmato e hanno risvegliato un movimento che fonda le sue radici in una Storia di ingiustizie e discriminazioni, mai risolte. Era il 1862 quando Abramo Lincoln firmò il Proclama di Emancipazione che decretava la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati dell’Unione. L’abolizione della schiavitù divenne ufficialmente l’obiettivo della guerra civile iniziata l’anno prima con la secessione degli Stati confederati del sud dove lavorava più della metà degli schiavi d’America, tra questi c’era Hillary Thomas Stewart, il trisnonno di George Floyd. I nordisti vinsero la guerra e lui ottenne la sua libertà ad 8 anni e si stabilì in Carolina del Nord dove, lavorando duramente, riuscì ad accumulare un appezzamento di terra di circa 200 ettari. Sposò Larcenia che gli diede 22 figli. Intanto, nel 1870, il XIV emendamento della costituzione gli aveva riconosciuto i diritti costituzionali e il XV emendamento quello al voto. Il Civil Rights Act (1875) stabiliva che doveva essere trattato come i bianchi nei luoghi pubblici, ma a Hillary e a Larcenia nessuno aveva insegnato a leggere e a scrivere e quando i Repubblicani del Nord smisero di occuparsi di quello che accadeva al Sud fu facile per un gruppo di contadini bianchi sottrarre a Hillary la sua terra. Il Civil Rights Act intanto era stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema perché sanzionava il comportamento degli individui e non di uno Stato e in tutto il Sud iniziavano ad apparire le leggi Jim Crow (il nome è quello di fantasia di un ragazzino nero che in una canzone popolare di fine ’800 arriva al Nord e chiede dove sono le giostre per lui diverse da quelle dei bianchi) che, sulla base del principio “separati, ma uguali”, riconosciuto anche dalla Corte Suprema, hanno costituito l’impalcatura di più di 70 anni di segregazione razziale. A pagarne le spese anche Sophell Suggs, la bisnonna di George Floyd, che puliva le case dei bianchi agli inizi del ‘900 e doveva indossare i guanti bianchi anche per lavare la biancheria sporca dei suoi datori di lavoro, preoccupati che le sue mani nere potessero altrimenti “infettare” le loro mutande. La nonna di George, invece, Laura Stewart Jones, lavorava in una piantagione di tabacco a 2,50$ al giorno, ebbe il primo di 14 figli ad appena tredici anni, ma imparò da sola a leggere, scrivere e suonare il piano e si impose affinché tutti i suoi figli, comprese le 10 ragazze, andassero a scuola e finissero il liceo. Larcenia, la madre di George scomparsa un paio di anni fa, crebbe ancora in un’America dove esistevano i bagni, le fontanelle, i vagoni dei treni, i sedili degli autobus Whites Only. Discriminazioni che neanche le sentenze della Corte Suprema degli anni ’50, le lotte per i diritti civili, l’avvento di Kennedy e del Civil Rights Act del 1964, sono riuscite a sradicare rapidamente dalla società e dalla cultura americana. La zia di George, Angela, quando si trasferì a Minneapolis come infermiera e riservista dell’aeronautica alla fine degli anni ’90, dovette inscenare un sit-in dal parrucchiere per ottenere la piega in un negozio abituato a servire solo le donne bianche. George è nato nel 1973 in Carolina del Nord i suoi genitori si lasciarono quando lui e i suoi due fratelli erano ancora piccoli. La madre poi incontrò un nuovo compagno e si trasferì con lui e i ragazzi ad Houston in Texas in un complesso di case popolari a sud della città: Cuney Homes. Qui il reddito medio è di 20 mila dollari l’anno, ci abitano quasi esclusivamente famiglie afroamericane: un esempio di quella segregazione abitativa ed urbanistica che è sopravvissuta fino ad oggi in quasi tutte le città d’America e che è corredata da delitti architettonici deliberati come le gallerie basse costruite da Robert Moses a Long Island per impedire agli autobus che arrivavano dalle zone povere e multi razziali di New York di raggiungere le spiagge, perché il razzismo negli Stati Uniti non è fatto solo di leggi e azioni, ma anche di opportunità e mattoni. Difficile riuscire ad emergere quando si cresce in un luogo dove i tuoi compagni di scuola muoiono tra droghe e sparatorie anche se sei premiato da indubbi talenti come George che spiccava nel football e nel basket tanto da guadagnarsi la possibilità di andare al College in Florida. È di questi anni il soprannome di Big George, ma quel ragazzone sorridente non riuscì a finire gli studi, il richiamo della strada era troppo forte e sua madre aveva bisogno di lui anche se tornare a Houston voleva dire allontanarsi da qualsiasi possibilità di riscatto. Iniziò ad entrare ed uscire di prigione prima per piccoli crimini legati alla droga poi nel 2007 per rapina a mano armata, intanto ebbe tre figli, la più piccola Gianna di appena sei anni. È per provare a garantire un futuro a lei che tre anni fa decise di traslocare a Minneapolis per stare più vicino a sua zia Angela e provare a rimettersi in piedi. Lavorò come autotrasportatore e buttafuori in un locale costretto a chiudere con la pandemia. Da più di due mesi George non aveva introiti, non lo sapeva, ma anche lui era malato. Aveva contratto il Covid19 in forma asintomatica come si è scoperto con l’autopsia, eppure il coronavirus non c’entra con la sua morte. La sua vita è finita quando quei quattro poliziotti lo hanno trovato in mano con un biglietto da 20$ probabilmente falso, ma in realtà la sua è sempre stata una vita a rischio in quanto nero, nato e cresciuto in dei quartieri disagiati, negli Stati Uniti... (segue)



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