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NUMERO 15 - 23/07/2008

Il Trattato di Lisbona tra bocciature referendarie e ratifiche parlamentari: i nodi della rappresentatività democratica e dell'integrazione politica

Mentre l'attuazione del federalismo fiscale sembra assumere una collocazione prioritaria nell'agenda del Governo e le questioni concernenti riforme costituzionali e della legge elettorale formano, sia pure con qualche incertezza, oggetto di continua elaborazione in seno alla maggioranza e all'opposizione, il dibattito nazionale sulla ratifica del trattato di Lisbona e sull'assetto istituzionale dell'Unione europea appare pressoché archiviato.
Anche la Repubblica italiana dovrebbe aggiungersi ben presto al nutrito gruppo di Stati membri che hanno già provveduto a ratificare, in conformità con le posizioni espresse dalla stragrande maggioranza delle forze politiche nazionali, le quali, anche se con differenti valutazioni circa l'esito negativo del referendum irlandese dello scorso giugno, ritengono che il processo debba comunque andare avanti, nonostante il trattato, nella sua attuale formulazione, non potrà comunque entrare in vigore in assenza di ratifica da parte della totalità degli Stati membri, giusta la previsione contenuta nell'articolo 6 dello stesso.
Nella prospettiva del processo di integrazione europea le motivazioni di questa scelta appaiono facilmente intuibili. Secondo un’opinione diffusa in Europa, all'esito di una prevedibile, o almeno auspicata, ratifica da parte di tutti gli altri partner dell'Unione, la Repubblica irlandese potrebbe indursi a riesaminare la propria posizione o, quanto meno, a rinegoziare il trattato, sì da scongiurare il perdurare dell'attuale crisi del processo di integrazione europea, apertasi nel 2005, con la mancata ratifica del trattato costituzionale firmato a Roma da parte di Francia e Olanda, sempre a seguito di consultazioni referendarie negative. 

(segue)



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