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NUMERO 13 - 28/06/2017

L'insostenibile solitudine dell'Italia davanti ai flussi incontrollati di migranti ridotti in Libia in stato di schiavitù

Mentre sul suolo patrio andava in scena la curiosa vicenda dell’accusa alle Ong umanitarie di complicità a vario titolo con i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, l’8 maggio 2017, nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York la Procuratrice della Corte penale internazionale, la gambiana Fatou Bensuda, prendeva la parola dinanzi al Consiglio di sicurezza per presentare il 13° rapporto sulla situazione in Libia in applicazione della celebre risoluzione 1970 (2011), figlia della responsabilità di proteggere e contenente il referral di detta situazione alla Corte medesima. Senza i soliti convenevoli diplomatici e con stile diretto la Procuratrice lanciava subito l’allarme che avrebbe  impensierito chiunque, ma non i navigati rappresentanti degli Stati membri del Consiglio: “allow me to observe with profound regret that the overall security situation in Libya has deteriorated significantly since my last briefing to the Council last November.  Reports indicate that the country is at risk of returning to widespread conflict” (UN Doc. S/PV.7934, 8 maggio 2017, p. 2). Secondo la Bensuda, tale epilogo militare determinerebbe una situazione di violazioni gravi e generalizzate dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario che avrebbe come vittima sacrificale la popolazione civile. Ai nostri fini, la Procuratrice non si è limitata a paventare il rischio di una sanguinosa deriva in Libia dall’anarchia diffusa al conflitto generalizzato, ma ha fornito una rappresentazione veritiera dell’attuale e terribile situazione in cui si trova la moltitudine dei migranti in transito nel territorio libico: “I am deeply alarmed by reports that thousands of vulnerable migrants, including women and children, are being held in detention centres across Libya in often inhumane conditions. Crimes, including killings, rapes and torture, are alleged to be commonplace” (ibidem, p. 4). Come se ciò non bastasse, la Bensouda ha anche citato fonti credibili secondo cui “Libya has become a marketplace for the trafficking of human beings” (ibidem). Dato che la Procuratrice della Corte dell’Aja, per funzione e carattere, non ama parlare per metafore, la rappresentazione della Libia come “mercato per la tratta di esseri umani” avrebbe dovuto scuotere la coscienza giuridica (e non solo) della comunità internazionale per almeno tre ordini di ragioni. In primo luogo, il dato sociopolitologico del ritorno del commercio degli schiavi in terra africana e sulle coste del Mediterraneo è a dir poco sconvolgente, rappresentando un regresso di alcuni secoli nell’idea stessa di progresso dell’umanità. In secondo luogo, se il Consiglio di sicurezza aveva già evidenziato in passato che il traffico di migranti e la tratta di esseri umani costituivano uno dei fattori di destabilizzazione cronica della situazione libica (si veda la risoluzione 2240 (2015)), la nuova magnitudo assunta dal fenomeno è ora indicativa del fatto che  “[t]hese activities could further provide fertile ground for organized crime and terrorist networks in Libya” (ibidem, p. 4). In altri termini, si tratta di un mercato di “esseri umani” (sic) le cui rendite finanziano direttamente, inter alia, i gruppi terroristici presenti in Libia. Ma è il terzo profilo a presentare maggiore interesse giuridico e a meritare un piccolo approfondimento. Infatti, in relazione a questi sviluppi, la Procuratrice ha annunciato che il suo Ufficio “is carefully examining the feasibility of opening an investigation into migrant related crimes in Libya should the Court’s jurisdictional requirements be met” (ibidem). L’Ufficio del Procuratore sta quindi concretamente valutando la possibilità di configurare gli abusi dei quali sono vittime i migranti in transito in Libia quali crimini internazionali (crimi contro l’umanità e/o crimini di guerra) al fine di aprire formalmente una indagine. In particolare, si ricorda che secondo dell’art. 7 dello Statuto di Roma, le condotte qualificate come crimini contro l’umanità (tra cui, l’omicidio, lo sterminio, lo stupro, la riduzione in schiavitù, la deportazione e il trasferimento forzato della popolazione, la persecuzione, ecc.) rientrano nella competenza ratione materiae della Corte soltanto se commesse nel corso di un attacco esteso o sistematico lanciato contro la popolazione civile da un’organizzazione statale o para-statale in esecuzione di un disegno politico. Nello specifico, rileva la “riduzione in schiavitù” nel corso di tratta dato che, ai  sensi dell’art. 7, par. 2, lett. c), dello Statuto della Corte, “‘Enslavement’ means the exercise of any or all of the powers attaching to the right of ownership over a person and includes the exercise of such power in the course of trafficking in persons, in particular women and children”. I rapporti disponibili sulla odissea dei migranti in transito in Libia non sembrano lasciare dubbi sulla possibilità di configurare tale situazione quale crimine contro l’umanità (si veda, in particolare, il Thirteenth Report of the Prosecutor of the International Criminal Court  to the United Nations Security Council pursuant to  1970 (2011), 8 maggio 2017, parr. 22-26). Oltrepassato da Sud il confine libico (si fa per dire), inizia un calvario di violenze e torture che assume i connotati giuridici della riduzione in  schiavitù nel centro di raccolta di Sebha nella Libia meridionale. Qui i migranti che non possono pagare per proseguire il viaggio della speranza vengono presi in ostaggio dalle organizzazioni criminali locali che chiedono un riscatto alle famiglie di origine in gran parte localizzate nell’Africa centrale ed occidentale. Per coloro che riescono a giungere sulle coste libiche per intraprendere la traversata del Mediterraneo la via crucis non è certo terminata  con l’unica differenza che nella gestione del “mercato degli schiavi”, nei centri di detenzione ufficiali o meno, sono implicate anche entità terroristiche che ne traggono un significativo beneficio finanziario.  Si tratta di un viaggio infernale che ormai coinvolge migliaia di persone all’anno (secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel 2016 sono giunte in Italia partendo dal Nord Africa 181.436 persone) e che ha dei costi umani insopportabili: dalle interviste ai migranti sbarcati sulle coste italiane risulta che la stragrande maggioranza dichiara di essere stato vittima di ogni genere di abusi e violenze, al netto delle migliaia di persone inghiottite dalla “cortina d’acqua” del Mediterraneo (stimate in 3.700 nel solo 2016).... (segue)

 



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