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NUMERO 19 - 11/10/2017

La Catalogna di fronte all'Europa


Questa Rivista è nata quasi quindici anni fa, intorno ad un gruppo di persone via via allargatosi, che si riconoscevano in due idee forti: la crisi, forse insuperabile, del modello europeo dello Stato nazionale, malamente importato nel resto del globo terracqueo e ormai in difficoltà anche nel continente che lo aveva originato; il fascino, forse irresistibile, dei modelli federali pensati come un continuum in cui si potevano tenere insieme i modelli di Unione di Stati fino ai modelli di Stato regionale. Sottesa a queste idee, pur se non dichiarata, la fascinazione teorica del superamento europeo degli stati nazionali verso un modello in cui in un'Europa unita convivessero più facilmente realtà minori dei vecchi, tradizionali, obsoleti Stati nazionali. Alla fine del XX secolo, gli Stati nazionali europei sembravano giunti alla fine della corsa e, nella convinzione della irreversibilità dalla costruzione europea, non trovavano quasi più nessuno che li rimpiangesse; in fin dei conti erano stati loro i responsabili delle due più grandi tragedie della storia contemporanea: il colonialismo e le due grandi guerre, veri e propri orrori che avevano un solo padre, il nazionalismo di matrice europea. Negli ultimi due decenni del XX secolo fu un grande fiorire di iniziative che diversamente si richiamavano a principi di regionalizzazione e di crescita delle autonomie territoriali: in Francia, la creazione delle Regioni risale agli anni ‘80; in Spagna il fenomeno autonomistico si rafforza; in Polonia, subito dopo la caduta del comunismo, si procede alla rivitalizzazione e al rafforzamento dei tradizionali Voivodati; in Belgio, la costituzione del 1993 segna il definitivo passaggio ad un modello federale; in Gran Bretagna si assiste ad un significativo rafforzamento dei parlamenti scozzese, gallese e nordirlandese e alla creazione delle Regioni in Inghilterra; in Italia, prendono le mosse quei fenomeni politici che condurranno alle leggi Bassanini, per l'introduzione del federalismo a Costituzione vigente, alla legge costituzionale n. 1 del 1999, sull’elezione diretta del Presidente della Regione e alla legge costituzionale n. 3 del 2001, che aumenterà oltre misura i poteri regionali. Erano gli anni di ascesa del ruolo del Comitato delle Regioni nel confronto fra le istituzioni europee (che invece non troverà posto tra istituzioni europee nel Trattato di Lisbona), della conferenza  delle regioni con poteri legislativi, delle Euroregioni, che sembravano talvolta sfidare gli Stati nazionali sulle politiche di settore (si pensi alle politiche della pesca o alle politiche di tutela del mare o alle politiche dei trasporti transeuropei); Erano, infine, gli anni dei mitici “Quattro motori di Europa”, che vedeva radunati la Lombardia, il Rhône-Alpe, il Baden-Wüttenberg, e, guarda caso, la Catalogna: una grande lobby territoriale, attraverso la quale le Regioni più ricche dell'Europa cercavano un dialogo diretto con le istituzioni comunitarie, aggirando o scavalcando gli Stati. E tali fenomeni istituzionali erano guardati, se non con favore, almeno con occhio benevolo, dalle istituzioni europee che in essi trovavano un importante riferimento extrastatuale. Il Trattato di Lisbona ha bloccato questa spirale. Il processo europeo può sì ripartire - questo era l’auspicio sotteso all'approvazione del testo - ma la partita deve tornare in mano agli Stati. L’istituzionalizzazione del metodo intergovernativo aveva proprio e specificamente questo significato: il federalizing process può continuare, ma saranno gli Stati nazionali, pur controllati da una Corte di Giustizia che assumerà il ruolo di custode giudiziario dei Trattati, non la Commissione, né altri soggetti estemporaneamente presenti nel tessuto istituzionale europeo, a decidere tempi, portata e direzione del processo. Bisognava, in quel momento, richiamare alla mente il vecchio insegnamento di Kelsen secondo cui non può esistere un doppio livello di federalismo, uno superstatuale, l'altro infrastatuale... (segue)



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