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NUMERO 24 - 04/10/2023

Per una cultura costituzionale della pena

Sembra ormai ineluttabile che a seguito di singoli episodi di cronaca si invochi e si realizzi quel “giro di vite” che consiste nell’inasprimento delle pene o nell’introduzione di nuove fattispecie di reato, di solito invocando la certezza della sanzione, intesa come fissità della stessa. È la “tolleranza zero” che travalica l’esigenza di dare una pronta, proporzionata ed efficace risposta di giustizia per tradursi in mera pretesa punitiva. L’esigenza della “giusta punizione” può persino relegare nell’ombra la finalità rieducativa, ergendo il reato commesso a fattore che può determinarne la completa compromissione. Con una singolare inversione della nota frase iscritta sui muri di molti istituti penitenziari, a entrare in carcere non sarebbe la persona, ma il reato che ha commesso. Il rilievo dell’infrazione compiuta sembra andare al di là dell’assegnazione ad uno specifico “circuito” o dell’applicazione del regime speciale qual è quello previsto per i reati di criminalità organizzata dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Diviene condizione del trattamento, ne conforma la “durezza”, segna la misura dell’afflizione possibile. È emblematico che nel gergo penitenziario si parli di “carcere duro” per i detenuti in regime di 41-bis, con la previsione di misure che talora appaiono meramente afflittive e non già funzionali all’obiettivo – legislativamente prescritto – di rescindere i rapporti tra la persona detenuta e il consesso criminale di appartenenza. È l’esigenza della “giusta punizione”, avente principalmente finalità repressiva e preventiva, che emerge nelle pieghe di questo modo di intendere la pena e che, addirittura, si vorrebbe formalizzare mediante la revisione costituzionale dell’art. 27, terzo comma, Cost., attribuendo alla legge ordinaria il compito di stabilire «i limiti della finalità rieducativa in rapporto con le altre finalità e con le esigenze di difesa sociale». Così facendo, però, si inciderebbe su un principio supremo, il finalismo rieducativo, traduzione nell’ambito dell’esecuzione penale di quella centralità della persona che pervade la trama della nostra Costituzione, a partire dagli articoli 2 e 3. Significherebbe “decostituzionalizzare” la Costituzione, lasciando in balia di una contingente maggioranza politica ciò che invece appartiene alla sfera del non decidibile, cristallizzato in una forma che esclude la possibilità stessa di arretramenti persino attraverso il procedimento aggravato previsto per la revisione costituzionale... (segue)



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