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NUMERO 22 - 26/11/2014

Questioni di metodo e questioni di contenuto nelle riforme costituzionali e elettorali

All'esame di alcuni profili contenutistici dei progetti di riforme costituzionali ed elettorali in discussione, vorrei premettere alcune osservazioni di metodo. In primo luogo, sono personalmente partecipe della vecchia massima secondo cui il "meglio è nemico del bene": nel mio personale best istituzionale, c'è l'elezione diretta del Presidente della Repubblica secondo il modello del semipresidenzialismo francese e anche l'elezione diretta di un Senato non paritario (ho sostenuto queste posizioni nella Commissione dei 35 esperti nominati dal Presidente del Consiglio Letta), così come nel best  di altri esponenti della cultura o delle istituzioni possono esserci indicazioni rispettabilissime di scelte migliori o di possibili soluzioni più efficaci. Ma, se il "meglio" è frutto di indicazioni individuali, il "bene" è frutto di un incontro, di un ascolto reciproco, dunque di un compromesse, che costringe a temperare e trovare soluzioni condivise (e, per quanto riguarda il progetto di riforma costituzione che qui si discute, questo lavoro di ascolto e di compromesso, come ben si può vedere dal confronto tra il testo presentato dal governo e il testo uscito dalla commissione, è stato in larga misura compiuto dal Senato in prima lettura) . Cosicché, di fronte all'alternativa - di cui spero che ne venga recepito il senso di paradosso - fra l'approvazione del testo così com'è e il periglioso scivolamento nelle sabbie mobili delle continue correzioni opterei sicuramente per il testo come è uscito dal Senato. Oltre all'abrogazione prevista nell'art. 39 del CNEL, residuato di un tempo che fu e che - con i suoi richiami alle categorie - non può tornare, vi sono almeno tre passaggi talmente importanti che fanno premio su tutti i possibili difetti del testo di riforma. Sono noti, ma è opportuno ripeterli: superamento del bicameralismo paritario e perfetto; riforma del palesemente erroneo testo della riforma del Titolo V (erroneo perché nell'ultimo scorcio della legislatura fu approvato un testo, che invece era stato presentato dalle Regioni come base della trattative; erroneo perché poi politica e giurisprudenza costituzionale hanno operato per rendere più confuso un già confuso testo!); introduzione di una corsia preferenziale per l'attuazione del programma di governo, in luogo dell'uso abnorme del decreto legge. La speranza naturalmente è che il clima politico-parlamentare possa permettere un confronto celere, ma nel contempo virtuoso e fruttuoso, tale da introdurre ulteriori miglioramenti sia alla riforma costituzionale, che alla riforma elettorale: e così vale la pena ancora una volta evidenziare alcune possibili modifiche e stimolare comunque alcune ulteriori riflessioni. Seconda premessa. La forma di governo sulla quale stiamo operando - e al cui interno vogliamo rimanere, pur esistendo una ampia area politica e culturale che riterrebbe ormai preferibile l'approdo ad una forma di governo semi-presidenziale (le ragioni sono descritte in un documento sottoscritto da 13 componenti della Commissione Letta) - è di tipo parlamentare. Al suo interno può e deve essere rafforzato il ruolo del Presidente del Consiglio, possono e devono essere attribuiti al Governo più incisivi strumenti per l'attuazione dell'indirizzo politico. Ma non si può pensare che l'elezione parlamentare possa diventare - anche formalmente - una elezione diretta del Capo dell'esecutivo. Rimane infatti fermo il circuito fiduciario tra parlamento ed esecutivo, che non può essere aggirato da presunte forme di diretta legittimazione popolare del Capo dell'esecutivo. Venti anni di fallimenti istituzionali in questa direzione non possono essere dimenticati... (segue)



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