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NUMERO 24 - 05/08/2020

We, Europeans, did it! Shall we, Italians, overcome?

“We did it”, ha cinguettato Charles Michel, Presidente del Consiglio europeo, abbracciando Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione, la mattina del 21 luglio, dopo aver concluso un lunghissimo e faticosissimo vertice europeo, in cui alla fine è stato approvato un corposo programma di intervento Ue per contrastare i negativi effetti economici e sociali della pandemia da coronavirus. L’approvazione è avvenuta dopo notti e giorni di duri contrasti tra i paesi più colpiti dal virus (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Belgio) e i cd. “Paesi frugali” (Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia, capitanati dai Paesi Bassi del “cattivissimo” Rutte). Si sarebbe sfiorata la rottura, ci hanno detto i mezzi di comunicazioni di massa, vecchi e nuovi, e i comunicati della Commissione; ci hanno fatto capire gli atteggiamenti dei diversi leader; la stessa gestione temporale di tutta vicenda era orientata dalla drammatizzazione. Eppure, senza nulla togliere alla capacità recitativa dei diversi “attori” (bravissimi Rutte e Conte; sobria, ma efficace, la Merkel; cruciale, ma un po’ in ombra, Macron; perfettamente compresi nel loro ruolo Michel e la von der Leyen), era difficile pensare che non si sarebbe arrivati ad una soluzione che avrebbe, a parole, soddisfatto tutti. Spingevano in questa direzione numerosi fattori. Il primo economico: le economie dei ventisette Stati membri sono strettamente interdipendenti e la crisi prolungata e di sistema di uno di essi, specie dei grandi, avrebbe effetti di a catena su tutti. Parlano le cifre. Secondo i dati eurostat, “nel 2018 gli scambi di merce tra gli stati membri della EU (commercio intra EU) sono stati valutati, in termini di esportazione, 3.518 miliardi di Euro, ossia superiori dell’80% al livello delle esportazioni dell’EU-28 verso paesi terzi, pari a 1.956 miliardi di euro (scambi extra UE)”. E ancora, dalla stessa fonte si ricava che “in ogni stato membro gli scambi intra UE di merci (ottenuti combinando insieme esportazioni e importazioni) sono superiori a quelli extra EU” (solo nel Regno Unito il rapporto era quasi paritario, attestandosi il primo dato al 50,3% del totale, il che spiega parzialmente le ragioni della uscita, rispecchiando quasi matematicamente le proporzioni di chi vuole uscire e di chi vuole rimanere). E, ancora, se oggi appare evidente la natura mondiale della crisi pandemica, ancora a metà aprile, la crisi sembrava colpire quasi esclusivamente l’Europa. Secondo i dati del 16 aprile, come elaborati dalla John Hopkins University, i contagiati da Covid-19 nel mondo – per quanto attendibili possano essere questi numeri ufficiali (già la stessa Università che li fornisce cerca di offrire chiavi di lettura della loro profonda disomogeneità) erano oltre 2 milioni; di questi, oltre 780.000, cioè il 38% nell’Unione Europea (nei 27 Stati membri). I morti per Covid-19, di nuovo con tutte le cautele e i caveat nell’utilizzare questi dati, erano oltre 138.000; di questi, quasi 75.000, cioè più della metà nell’Unione. E se è vero che la recessione colpirà tutto il mondo, i dati confermano che l’area euro subirà i contraccolpi peggiori. Insomma, si era arrivati al vertice del 17-21 luglio con la convinzione che nell’Unione Europea si muore insieme, si cresce insieme, si perde produttività, sia pur a velocità diverse, insieme. E se i sistemi produttivi sono bloccati da una improvvisa epidemia, a rimetterci, come hanno fatto notare ambienti imprenditoriali di quasi tutti gli Stati membri, saranno tutte le economie nazionali, anche quelle che riescono – con abilità: si vota con i piedi, è vero, dicono i teorici del federalismo fiscale, ma questo vale fino a quando si produce ricchezza – a sfruttare gli spazi del fiscal dumping. Sotto il profilo politico, il Consiglio europeo di luglio era stato anticipato da una netta presa di posizione congiunta di Germania e Francia che, già nel maggio 2020, avevano proposto un intervento di almeno 500 miliardi di euro, distribuiti tra sovvenzioni e prestiti; immediatamente era seguita una proposta della Commissione che ipotizzava un intervento complessivo di 750 miliardi, di cui 500 in sovvenzioni e 250 in prestiti agli Stati a basso tasso di interesse con scadenza 2058. Pensare che il Consiglio potesse capovolgere una proposta alle cui spalle vi erano Commissione, Germania e Francia, serviva solo a eccitare gli stati d’animo nazionali in un uno scontro in cui la dimensione nazionale era ed è altrettanto importante di quella europea. A spiegare perché non si poteva rompere vi è poi una ragione strettamente istituzionale. Dopo Brexit, che ha fatto diventare realtà quella che fino a ieri sembrava fantascienza istituzionale, cioè l’uscita dall’Unione, vi è un limite alla minaccia di rottura, specie se portata avanti isolatamente da un solo Stato membro. Chi, di fronte ad un accordo che la grande maggioranza degli stati e dei cittadini europei percepisce come cruciale, tira troppo la corda, può ormai essere invitato a imboccare la porta di uscita: ancorché con grandi difficoltà, si può uscire dall’Unione. Ma, mentre il Regno Unito, per la sua storia, oltre che per i dati che abbiamo ricordato sopra, può permettersi di imboccare questa strada, i Paesi Bassi – così come tanti altri piccoli Stati membri sempre recalcitranti, ingrugniti, minacciosi, pronti a dare lezioni a chicchessia – non se lo possono permettere. E così, paradossalmente, l’uscita del Regno Unito, lungi dall’indebolire l’Unione, potrebbe averla rafforzata, riducendo la portata del diritto di veto che ogni Stato pensa di potersi portare dietro ed esercitare in seno al Consiglio europeo… (segue)



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