La decisione sull’irricevibilità dei milioni di emendamenti presentati dal sen. Calderoli al disegno di legge costituzionale di riforma del bicameralismo e di revisione del Titolo V nel corso dell’esame, in terza lettura, presso l’Assemblea del Senato, sta suscitando vivace reazioni. Oltre a ciò, le cronache parlamentari ci raccontano di contrasti tra il Presidente del Senato e la linea del Governo sui limiti di ammissibilità di emendamenti che riguardino parti su cui si è già registrata una doppia deliberazione conforme e sui tempi di esame del provvedimento. E, altresì, di una fase di intensa mobilità parlamentare, con numerosi passaggi di deputati e senatori da un gruppo all’altro. Su tutte queste vicende il nostro Parlamento sconta, invero, non soltanto le difficoltà congiunturali di una situazione politica ad alta tensione e di una – per definizione particolarmente ardua – “autoriforma” del Senato, ma altresì altrettanti nodi strutturali da tempo segnalati, ma non sciolti, anche a causa di una scarsa capacità di adeguamento dei regolamenti parlamentari alle dinamiche di leggi elettorali prevalentemente maggioritarie; quest’ultima a sua volta riconducibile, almeno in parte, ad una riforma del bicameralismo più volte intrapresa (a partire dagli anni ’80, oltre trenta anni or sono), persino “promessa” (nel 2001, dallo stesso legislatore costituzionale, con l’art. 11 della l.cost. n. 3 del 2001), ma mai realizzata. In qualche modo, perciò, senza eccessive forzature logiche, si può persino affermare che le vicende oggi all’attenzione delle cronache stiano a dimostrare una volta di più la necessità di procedere ad una profonda riforma del Parlamento italiano, a partire evidentemente dall’assetto bicamerale, la cui mancata revisione ha costituito una sorta di “tappo”, che ha fin qui ostacolato il cammino delle altre innovazioni relative alle due Camere e ai loro rapporti con il Governo... (segue)
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