È nell’aria un cambio di prospettiva costituzionale. Il governo giallo-verde, nella sua componente grillina o, almeno, in una sua parte rilevante, sta spingendo per l’approvazione di una revisione costituzionale diretta a introdurre una specie di potere legislativo popolare concorrente e alternativo a quello spettante alle camere in base all’art. 70 cost. Il principio della rappresentanza politica, fondamento della nostra costituzione, figlio di una tradizione comune a tutti i paesi del mondo occidentale, rischia di essere seriamente compromesso da quella proposta. Il risultato, almeno nelle intenzioni dei proponenti, è quello di “riportare al centro i cittadini” nella produzione normativa, contrapponendo la legislazione popolare alla legislazione parlamentare. Mi rendo conto che si tratta di un giudizio tranchant: ma è compito degli intellettuali non lisciare il pelo a chi detiene il potere ma esercitare fino in fondo il potere di critica, specialmente nei confronti di ipotesi strampalate o malamente copiate da altre esperienze che, con la nostra, hanno poco e nulla a che vedere. Che nel nostro paese gli istituti di partecipazione popolare e, soprattutto, il referendum abrogativo non siano mai stati visti di buon occhio è cosa nota. Inutile ricordare il modo rocambolesco in cui, 22 anni dopo il varo della Costituzione, è stata approvata la legge istitutiva del referendum abrogativo. Inutile richiamare la freddezza e, in molti casi, l’avversione dei partiti politici contro le iniziative liberali e libertarie dei radicali e contro il movimento per la riforma della politica di Mario Segni, Augusto Barbera, Achille Occhetto, Arturo Parisi e tanti altri favorevoli al cambio della legge elettorale proporzionale. Inutile ricordare l’uso partitocratico di molte iniziative referendarie e dei risultati usciti dalle urne. Inulte, ancora, citare i numerosi tradimenti della volontà del corpo elettorale. La storia dei referendum popolari, nazionali e locali (sui quali poco si sa ma che conoscono vicende analoghe a quelle delle consultazioni nazionali: basti per tutti il caso del referendum consultivo contro il finanziamento alle scuole private nel comune di Bologna vinto nelle urne ma totalmente disatteso dall’amministrazione sconfitta dal voto) è tuttavia una storia importante: periodiche iniezioni di partecipazione popolare hanno fatto bene alla politica e alla legislazione del paese. E, quindi, ben vengano iniziative che rafforzino la funzione di stimolo del parlamento da parte di poteri popolari più o meno “diretti”. Una proposta di questo tipo era contenuta in alcune proposte di revisione presentate anche nel passato più recente: tutte si muovevano in linea con analoghi strumenti di diritto comparato: iniziative legislative popolari dirette a obbligare il parlamento a pronunciarsi e, in caso di approvazione di un testo difforme, possibilità di sottoporre l’atto parlamentare a un referendum popolare. La logica dell’intiative è, infatti, quella della collaborazione e non della contrapposizione tra corpo elettorale e parlamento. La legislazione, infatti, è cosa delle istituzioni rappresentative: solo regimi plebiscitari e autoritari scambiano il rapporto di forza tra “popolo” e “rappresentante”, affidando, in particolare, al primo o, meglio, a coloro che pretendono di identificarsi col “popolo”, di legiferare in luogo del parlamento sede naturale del processo legislativo democratico. Il presupposto che muove oggi l’iniziativa grillina (accanto alla quale v’è pure un concorrente ma differente progetto di legge costituzionale presentati da alcuni deputati del partito democratico, Stefano Ceccanti ne è il primo firmatario) è che la crisi della democrazia rappresentativa, di cui proprio il M5 stelle è uno dei principali prodotti, possa essere sostituita con un forte innesto di democrazia diretta, mediante un’iniziativa legislativa popolare che, per come disegnata, o impone al parlamento la scrittura di una legge a rime obbligate secondo il progetto popolare o, nel caso in cui i rappresentanti modificassero la proposta del comitato promotore, rimette al “popolo” il potere di risolvere in un referendum decisorio il conflitto tra l’atto voluto dai promotori e quello modificato dal parlamento. Cercherò di dimostrare che la pur nobile idea di rafforzare l’iniziativa popolare con garanzie di risultato non equivale a aggiornare il nostro ordinamento seguendo soluzioni coerenti con la tradizione delle liberaldemocrazie, ma a trasformarlo, ribaltando il rapporto tra la componente rappresentativa e la componente plebiscitaria a vantaggio di quest’ultima. La regola della decisione mediata attraverso la dialettica parlamentare di rappresentanti eletti, necessaria per trovare la migliore delle decisioni come insegnano oltre trecento anni di storia costituzionale, rischia di essere sovvertita a vantaggio del potere plebiscitario del “popolo”, cui si riconoscono improbabili virtù razionali, tali da rendere per definizione assolutamente migliore qualsiasi proposta che da esso (o, meglio, da chi si appropria della supposta volontà popolare) provenga. Nell’esposizione seguirò in gran parte la riflessione che ho condotto nell’audizione da me svolta nella I commissione affari costituzionali della camera dei deputati (3 dicembre 2018) dove giacciono i due testi di modifica dell’art. 71 cost.: la proposta di revisione cost. n. 726 (Ceccanti e altri) e la proposta di revisione cost. n. 1173 (D’Uva e altri)… (segue)
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