Con un’ampia partecipazione popolare, che per la prima volta ha superato il 50 per cento degli elettori, a maggio 2019 abbiamo votato per la nona volta per l’elezione del Parlamento europeo, luogo della rappresentanza politica (art. 14 TUE) di oltre cinquecento milioni di cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e quindi cittadini europei, ai sensi dell’art. 9 TUE. Sono stati eletti 751 deputati, provenienti da 28 Stati membri diversi, che, nei giorni successivi, si sono distribuiti in gruppi parlamentari secondo linee di omogeneità politica, così come richiesto dall’art. 32, comma 1, del regolamento del Parlamento (il gruppo del Partito popolare europeo è il più numeroso, con 182 deputati, seguito dal gruppo dell’alleanza progressista dei socialisti e democratici, con 154, dal gruppo di Renew Europe, con 108, dal gruppo dei Verdi-Alleanza libera europea, con 74, dal gruppo Identità e democrazia, con 73, dal gruppo dei Conservatori e Riformisti europei, con 62, dal gruppo confederale della sinistra unitaria europea/sinistra verde nordica, con 41; 57 deputati, tra cui gli eletti del Movimento Cinque Stelle, non sono riusciti a costituire un gruppo e sono nel gruppo misto). Come è evidente, quello politico, lungo il tradizionale asse destra-sinistra, pur rimanendo il clivage principale - come è dimostrato dal fatto che i parlamentari europei votano fondamentalmente secondo le indicazioni dei gruppi e non per linee nazionali - non è l’unico presente nell’organo rappresentativo. E, infatti, pur se gli Stati membri hanno come sede privilegiata di rappresentanza dei loro differenziati interessi il Consiglio, che sempre più va assumendo la funzione di una Camera dei territori, secondo il modello classico delle esperienze federali, è evidente che i parlamentari terranno presente - anche solo per salvaguardare la propria posizione davanti all’elettorato - gli interessi del territorio di provenienza. È, questa, una regola imprescindibile in ogni sistema elettorale, esasperata con i sistemi maggioritari uninominali (a turno unico o a doppio turno, plurality o majority che siano), in cui l’eletto guarderà con attenzione le posizioni e gli interessi della propria constituency; ma significativamente presente in tutti i sistemi proporzionali, in cui la distribuzione dei seggi avvenga sulla base di unità territoriali minori di quella generale; ammorbidita, ma non esclusa, nei sistemi elettorali in cui la distribuzione dei seggi avviene sulla base di un unico collegio nazionale (in questo caso, infatti, la capacità di rappresentazione di interessi di categoria ha lo stesso rango e la stessa capacità di influenza di quella relativa ad interessi territoriali). A queste due tradizionali linee di separazione presenti nel Parlamento europeo, così come in qualsiasi altro luogo di rappresentanza politica, sempre tenendo presente la capacità di influenza delle organizzazioni rappresentative di interessi economici e professionali, si affiancherà in questa legislatura un’altra potente linea di divisione, quella che correrà lungo l’asse del favor verso una maggiore o minore integrazione delle politiche europee. La raffigurazione giornalistica parlerà di “sovranisti” e “globalisti”, ma questa chiave di lettura, da sola, non ci aiuta a cogliere la realtà. Nessuno sarà mai, e tanto meno nel Parlamento europeo, totalmente globalista; nessuno totalmente sovranista. La globalizzazione, bella o buona, brutta o cattiva, è un fatto, non è più né un desiderio di persone senza radici, né una scelta di gnomi della finanza: basta entrare in un aeroporto (duecento milioni di voli ogni anno) o contare gli account Facebook a livello mondiale (oltre due miliardi) per rendersi conto che indietro non si torna più. E in questo mondo inevitabilmente globalizzato discipline autarchicamente nazionali degli innumerevoli settori, più o meno sensibili, della nostra vita associata sono impensabili, a meno di non cercare improbabili forme di isolamento. La definitiva partita, anche in questo Parlamento, si giocherà nel rapporto tra i due principi costituzionali europei della tutela delle “identità nazionale” (art. 4, comma 2, TUE) e della valorizzazione delle “tradizioni costituzionali comuni” (art. 6, comma 3, TUE). Nessuno rinunzierà a individuare la propria identità nazionale e a usarla come uno scudo nei rapporti con gli altri Stati (ma, si spera, senza giungere a utilizzarla come una corazza e senza rotearla come una spada); ma nessuno in Europa può e potrà mai negare di avere tradizioni costituzionali comuni, non solo nell’area delle libertà, bensì anche nella struttura istituzionale, politica e sociale. Nel contesto europeo politica, cultura, istituzioni amministrative e giudiziarie sono chiamate, ognuna nel proprio ruolo, al difficile bilanciamento tra identità nazionale e tradizioni comuni: e questo compito spetta in primo luogo al Parlamento europeo… (segue)
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