Con due sentenze, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre di quest’anno, pochi giorni fa dunque, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha riportato in voga una questione in realtà mai totalmente sopita, ovvero la persistente rilevanza delle categorie classiche del diritto costituzionale nella soltanto apparentemente eterea ed allergica a qualsiasi tentativo regolamentazione dimensione digitale. Territorio, sovranità e potere sono concetti assolutamente attuali nel diritto di internet, con cui bisogna fare i conti, nonostante spesso una narrativa semplificante tenda, colposamente o dolosamente, a ignorarne la rilevanza. In particolare, è la dimensione territoriale il primo elemento di connessione tra le due decisioni prima ricordate di questo autunno caldo. Nella prima, la Corte di Lussemburgo ha che fare con la fissazione dei limiti territoriali all’esercizio di quel diritto all’oblio, o meglio alla deindicizzazione, invenzione giurisprudenziale da parte della stessa Corte nel 2014, che è stato poi codificato dall’art. 17 del GDPR. Più in particolare, la controversia nazionale da cui origina il rinvio pregiudiziale del Conseil d’Etat è tra la Commissione nazionale francese per l’informatica (CNIL) e Google, relativamente a una sanzione economica irrogata dalla prima nei confronti di quest’ultimo, a causa del rifiuto da parte del motore di ricerca di accogliere una domanda di deindicizzazione riguardante tutte le estensioni del nome di dominio del suo motore di ricerca. In altre parole, su scala globale. Tra le varie domande che il supremo organo di giustizia amministrativa francese pone alla Corte di giustizia, la più (costituzionalmente) rilevante è la prima, che ha proprio a che fare con i limiti territoriali del diritto all’oblio: è possibile ipotizzare un ordine di rimozione di carattere worldwide o non possono oltrepassarsi i confini geografici del diritto applicabile dell’Unione? La seconda decisione vede quale protagonista un altro dei giganti digitali, Facebook. In particolare, in questa occasione, la Corte suprema austriaca chiede alla Corte di Lussemburgo quale sia oggi il portato interpretativo, in una prospettiva sostanziale e territoriale, dell’esenzione a favore degli hosting provider prevista dalla direttiva sul commercio elettronico del 2000 (la n. 31). In particolare, il giudice austriaco investe i giudici europei di tale chiarimento interpretativo in occasione di una controversa che vedeva Facebook contrapposto a una esponente del gruppo austriaco dei verdi che chiedeva al primo la rimozione delle espressioni a contenuto diffamatorio pubblicate da un utente sul social network, come segnalate dalla stessa esponente. La ricorrente chiedeva inoltre la richiesta di rimozione dei contenuti diffamatori che, seppure non totalmente identici, erano sostanzialmente equivalenti, rispetto a quelli espressamente identificati. Se, da un lato, il social network rimuoveva i contenuti espressamente indicati, dall’altro, si rifiutava di fare lo stesso per quelli di natura equivalente non indicati, in quanto, a suo dire, così facendo si sarebbe scontrato con quanto previsto dall’art. 15 della direttiva sul commercio elettronico prima richiamata, a norma del quale l’hosting provider non ha alcun obbligo di monitoraggio preventivo rispetto a quanto ospitato sulle sue pagine. Il dilemma del giudice austriaco è quindi, fondamentalmente, di doppia natura. In primo luogo: è compatibile con un’interpretazione, per cosi dire, tecnologicamente orientata della direttiva richiamata un’ingiunzione da parte di una corte nazionale nei confronti del social network di rimuovere le informazioni da esso memorizzate e il cui contenuto sia equivalente a quello di un’informazione precedentemente dichiarata illecita? In secondo luogo, tale ordine di rimozione può avere una natura globale o è solo limitata all’estensione del territorio europeo (melius degli stati membri parte dell’Unione)?... (segue)
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