
Lo scorso 12 giugno l’Italia è stata chiamata a recarsi alle urne per esprimersi sui 5 quesiti referendari in materia di giustizia dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale; nello stesso giorno, poco meno di 9 milioni di concittadini potevano esprimere il loro voto anche per il rinnovo degli organi di 978 comuni. I dati relativi all’affluenza alle urne diffusi dal Ministero dell’Interno hanno impietosamente messo in evidenza come il momento elettorale interessi sempre di meno agli italiani: per le elezioni amministrative l’affluenza si è fermata al 54,73% (nelle consultazioni precedenti era stata del 60, 12%), mentre il referendum ha segnato il record storico negativo, con solo il 20,94% dei voti espressi. Come previsto dalla normativa vigente, a partire dalla mezzanotte di venerdì 10 giugno è scattato il “silenzio elettorale” e da quel momento non è stato più possibile esprimere sui media tradizionali posizioni e opinioni con riferimento alla tornata elettorale. Nel corso degli ultimi dieci anni almeno, quel silenzio elettorale è stato sistematicamente violato sui social network e sui nuovi canali di comunicazione che dominano ormai l’infosfera. Altrettanto regolarmente si sono levati anche gli strali di quanti hanno denunciato tale violazione, invocando l’urgenza dell’approvazione di una normativa che trascini nel mondo on line le previsioni ad oggi valide solo per l’off line. Il tema c’è, è evidente: siamo al cospetto di un’intollerabile asimmetria legislativa e da questo non può che scaturire un disagio, dato dallo squilibrio tra due situazioni che sembrerebbe necessario, al contrario, disciplinare allo stesso modo. Il punto è cercare di capire se la risposta adeguata possa e debba essere quella di adattare una normativa nata e pensata per un contesto istituzionale e mediatico con determinate caratteristiche ad una situazione.. (segue)
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