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FOCUS - Comunicazioni, media e nuove tecnologie N. 2 - 19/09/2014

 Identità, oblio, informazione e memoria in viaggio da Strasburgo a Lussemburgo, passando per Milano

Si legge sempre più frequentemente che il processo di emersione dei diritti di ultima generazione avvenga attraverso il dialogo tra le Corti, piuttosto che con l’intervento del legislatore, nazionale o sovranazionale. Tale considerazione sembra valere in modo particolare per quanto concerne le nuove tecnologie della comunicazione. A fronte di un sostanziale immobilismo del legislatore italiano ed europeo, il progressivo accatastarsi di pronunce da parte di organi giurisdizionali nazionali e sovranazionali sta, infatti, definendo i contorni di un “diritto dell’informazione in rete” con sempre più elementi di uniformità tra gli ordinamenti europei. In altri termini, le Corti stanno progressivamente tarando il bilanciamento tra il diritto di informare e di essere informati in rete e gli altri diritti della personalità (reputazione, riservatezza, tutela dei dati, identità, oblio, etc.), riempiendo gli spazi rimasti bianchi o modificando gli equilibri precedentemente raggiunti, in ragione del progressivo mutamento tecnologico. In particolare, sta emergendo un’istanza di riconoscimento di un “diritto all’identità digitale”, inteso come diritto dell’individuo a ottenere la rettifica, la contestualizzazione, l’aggiornamento progressivo nel tempo e, in taluni casi, addirittura la de-indicizzazione e la cancellazione dei propri dati personali dal web, al fine di assicurare una rappresentazione corretta e attuale della propria identità e di garantire il “diritto all’oblio”. In questa prospettiva, meritano di essere esaminate congiuntamente tre recenti decisioni che hanno affrontato alcuni nodi relativi al conflitto tra libertà di informazione on line e diritto del singolo di governare la propria identità in rete. Nelle prime due sentenze - una della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2013 e una della Corte d’appello di Milano dell’inizio del 2014 - si discute se sussista un diritto di un soggetto leso nella propria reputazione a far cancellare dagli archivi on line di un quotidiano un articolo dichiarato diffamatorio in una sentenza passata in giudicato o, quanto meno, se si possa individuare un obbligo in capo all’editore di segnalare ai lettori il carattere illecito del pezzo. Al centro della terza decisione qui considerata - la già celeberrima sentenza “Google Spain”, pronunciata dalla Corte di Giustizia dell’Unione il 13 maggio 2014 -  vi è la questione del riconoscimento del diritto di un individuo a ottenere da un motore di ricerca l’eliminazione, a determinate condizioni, dei link verso pagine web contenenti informazioni che lo riguardano. Il dilemma di fondo che ha impegnato i giudici nelle tre pronunce citate sembra essere comune: come evitare che un individuo resti per sempre “prigioniero” in rete di un’immagine mendace o comunque risalente nel tempo e non più capace di rappresentarlo e come, al contempo, scongiurare interventi di natura lato sensu censoria, che limitino la diffusione di informazioni di interesse attuale o storico. Gli esiti mostrano la complessità del bilanciamento tra gli interessi in gioco e la difficoltà di preservare la completezza delle fonti storiche senza pregiudicare il diritto all’oblio degli individui... (segue)



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