«As legislative inertia and European democratic failings are good reasons for judicial activism, by contrast, when democracy advances and politics assert its claims, judges are bound to take a step back». Si scriveva cosi dieci anni fa, a proposito di un ambito di esperienza (apparentemente) distante da quello della tutela dei diritti fondamentali nell’era digitale. Ma, né il tempo, né la distanza tematica sembrano in grado di far venir meno l’assunto di base che caratterizza, tra l’altro, portata e limiti dell’attitudine creativa della Corte di giustizia in grado di elaborare, come è stato acutamente osservato, «a constitutional doctrine by a common law method». Tutte le volte in cui gli stati membri dimostrano di non voler progredire nel percorso di arricchimento dell’acquiscomunitario per via legislativa, ecco che la Corte di giustizia indossa, con una certa disinvoltura, va detto, i panni del judge made law e accelera per via giurisprudenziale. Non sembra qualcosa di assai dissimile sia accaduto rispetto alle ultime evoluzioni relative ai meccanismi di protezione dei dati personali presenti nell’ordinamento comunitario. Oramai da anni, a livello intergovernativo, si era deciso che fosse necessario uno scatto in avanti riguardo il livello di tutela della privacy europea, e che fosse indispensabile un atto di portata generale immediatamente vincolante ed obbligatorio in tutti i suoi elementi che portasse ad una maggiore uniformazione del dato normativo degli stati membri e che adeguasse i meccanismi di protezione dei dati al contesto digitale che, ovviamente, non era l’ambito elettivo di riferimento quando si è adottata la direttiva del 46/95. Ciò nonostante, il destino del regolamento generale a protezione dei dati personali, la cui approvazione, non a caso, ha subito un’accelerazione a seguito dell’intervento, a piedi uniti, della Corte di giustizia nelle due decisioni che qui si commentano, sembrava vincolato al superamento di veti incrociati di difficile risoluzione. Una situazione di stagnazione cui i giudici comunitari rispondono in maniera decisa, con le due decisioni tra aprile e maggi del 2014, in cui sembra emergere la chiara volontà, da parte degli stessi giudici, di prendere molto (forse troppo?) sul serio la protezione di un nuovo digital right to privacy. Un tentativo, in altre parole, da parte della Corte di giustizia, di adeguare, a legislazione invariata, alle caratteristiche tecniche del “mondo dei bit” quel Right to Privacy che Warren e Brandeis, per primi, nel 1890, avevano teorizzato sulla Harvard Law Review, pensando, ovviamente, ad un “mondo di atomi”. Un diritto alla privacy digitale che, seppure mai esplicitamente, i giudici di Lussemburgo enucleano fondandolo sulle due colonne portanti costituite dai diritti al rispetto della vita privata ed al trattamento dei propri dati personali, previsti, rispettivamente, dagli artt. 7 ed 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nella prima pronuncia i giudici di Lussemburgo hanno annullato, perché in contrasto con alcune previsioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la direttiva del 2006 in materia di conservazione dati (c.d. data retention), nella seconda hanno invece posto a carico dei motori di ricerca l’obbligo, a certe condizioni, di rimuovere, su espressa richiesta del ricorrente, link a pagine Internet contenenti informazioni in grado di poter ledere il cd. diritto all’oblio del soggetto i cui dati personali, e spesso sensibili, permangono per un periodo significativo in rete. In entrambe le decisioni in esame il terreno di gioco è quello caratterizzato dai processi di deterritorializzazione, destatualizzazione e dematerializzazione che costituiscono, forse, il portato più immediato e, paradossalmente, più “tangibile” della rivoluzione digitale. E, in entrambe le pronunce, la prospettiva privilegiata attraverso cui la Corte di Lussemburgo esplora tale terreno è quella relativa all’impatto del fattore tecnologico sul livello di protezione dei diritti fondamentali in gioco, in cui la partita si gioca sull’an e sulquomodo la previsione delle possibili limitazioni che questi ultimi possono subire attraverso le nuove modalità di sorveglianza ed indicizzazione fornite dallo sviluppo della tecnologia digitale. Il riferimento, appena fatto, ai processi di sorveglianza e indicizzazione fa subito emergere un terzo profilo di “comunanza” tra le due decisioni che consiglia un commento unitario. In questa sede, dopo un sintetico riferimento al portato degli artt. 7 e 8 della Carta e all’interpretazione che a quest’ultimi è stata data in una prima fase della giurisprudenza rilevante della Corte di Lussemburgo antecedente alle due decisioni oggetto di analisi, si concentrerà sulreasoning di tali pronunce, facendo emergere, in particolare, il ruolo giocato dalle disposizioni della Carta appena citate nel processo argomentativo e nel portato finali delle decisioni. Le riflessioni conclusive si appunteranno invece sulle conseguenze che sembrano discendere, nei termini di un abbassamento del livello di protezione di alcuni diritti in gioco, dalle operazioni di bilanciamento operate dalla Corte di giustizia quando il campo di gioco rilevante muta dal contesto analogico a quello digitale... (segue)
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