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FOCUS - Comunicazioni, media e nuove tecnologie N. 1 - 04/03/2016

 La governance dei sistemi radiotelevisivi pubblici: una questione culturale

La Legge 220/2015 di “Riforma della RAI e del servizio pubblico radiotelevisivo” approvata lo scorso dicembre sollecita alcune riflessioni sullo sviluppo dei servizi radiotelevisivi e sul legame con la politica, soprattutto, in relazione alla nomina degli organi direttivi. In questo scritto analizzeremo in maniera trasversale e comparata l’organizzazione delle emittenti pubbliche in Europa e cercheremo di dare una lettura del potere di nomina utilizzando vari strumenti di lettura (inclusi alcuni modelli elaborati da studiosi di discipline non giuridiche). Partiremo da un rapido richiamo delle ragioni che, in Europa, hanno portato alla formazione dei servizi pubblici radiotelevisivi. Diversi fattori – di natura politica, economica e tecnica – hanno accomunato gli Stati nel momento in cui si apprestavano a regolare prima la radio, e poi la televisione, come nuovo e stravolgente  fenomeno mediatico; tuttavia la diversa intensità dell'intervento statale ha portato alla formazione di due noti modelli contrapposti: quello statunitense e quello “europeo”. Si tratta di due modelli che risentono di tradizioni giuridiche diverse e di due differenti modi di intendere la gestione della cosa pubblica. Nel primo, intriso dei valori del liberismo e della politica economica di stampo capitalistico degli Stati Uniti, le imprese radiotelevisive esprimono la sintesi del bilanciamento tra la libertà di informazione e la libertà di iniziativa economica (con una prevalenza della seconda, che si avverte anche sul profilo strutturale dei grandi Networks radiotelevisivi, orientati da sempre alla ricerca del profitto). In Europa, al contrario, si è delineato un modello che risente della storia degli Stati-nazione e del contesto politico ed economico scaturito dal secondo dopoguerra, in cui l’intervento pubblico nella cultura ha prevalso sulla libertà di impresa. Una serie di interessi e di valori (che andavano oltre il mero rifiuto di un modello di Tv commerciale e portavano a considerare la radio e, soprattutto, la televisione, uno strumento in grado di raggiungere le masse con modalità mai sperimentate prima e, come tale, da giustificare l'intervento dello Stato) hanno avvicinato esperienze statali diverse e hanno portato alla condivisione dell'idea di servizio pubblico e all'affidamento ad esso di una mission comune. La formazione di questo idem sentire deriva dalla circolazione di un modello culturale, nato con la BBC britannica, ancorato al concetto di servizio pubblico che si è sviluppato sui tre pilastri (informazione, intrattenimento, educazione) definiti fin da subito dal suo primo Direttore generale, Sir John Reith, il quale lasciò un’impronta indelebile nella formazione e nello sviluppo della radiotelevisione britannica e ne fece un modello culturale destinato a circolare non solo nei Paesi europei, ma pure in contesti giuridici e culturali diversi. Sul versante strutturale, questi valori si sono trasformati nel seguente assioma: indipendenza dell'ente radiotelevisivo dallo Stato (Tv pubblica, ma non statale!) e dal mercato. In termini giuridici ciò si è riflesso su alcuni requisiti relativi a: le fonti (che rispecchiano le peculiarità dell'ordinamento britannico); la natura dell'ente (pubblica, come richiesto dalle prime Commissioni di inchiesta Sykes e Crawford); gli organi interni (il Board of Governors e il Direttore Generale, che hanno retto per più di ottanta anni fino all'ultima revisione della Royal Charter); le modalità del finanziamento (rigorosamente pubblico, affidato a una licence fee, con esclusione del ricorso alla pubblicità); l'imposizione agli operatori televisivi privati di una serie di obblighi rientranti nel concetto di servizio pubblico... (segue)



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