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FOCUS - Comunicazioni, media e nuove tecnologie N. 2 - 21/11/2016

 Il branded entertainment e le sfide legali delle nuove forme di comunicazione commerciale

Cosa sarebbe successo se la Campbell’s avesse commissionato a Warhol le celebri opere che ritraggono le confezioni delle zuppe? I musei avrebbero dovuto inserire accanto al titolo un avviso per informare il pubblico della presenza di marchi o di prodotti per fini commerciali? O, in assenza, avremmo dovuto considerare l’artista responsabile per la diffusione di pubblicità surretizia?   Queste riflessioni, chiaramente provocatorie, riassumono i termini della questione: qual è il limite tra pubblicità occulta e il legittimo esercizio del diritto di manifestazione del pensiero?  La comunicazione commerciale costituisce tuttora la colonna portante dei servizi di media audiovisivi ma anche una crescente fonte di ricavi per i servizi internet (inclusi i servizi video on demand) basati sulla diffusione di contenuti e dei social networks sempre più interessati allo sviluppo di servizi di diffusione di video. L’evoluzione in corso dimostra come la pubblicità stia modificando il proprio linguaggio e i propri paradigmi: non si può escludere che in futuro gli utenti pagheranno per fruire di un messaggio pubblicitario. Ciò che può sembrare un paradosso è molto vicino alla realtà. Già oggi sono numerosi i contenuti “branded” – audiovisivi e non – presenti sui canali televisivi a pagamento, sui cataloghi dei servizi di media a richiesta, le testate giornalistiche e i cinema. Si tratta di un modello di comunicazione che altera il meccanismo tradizionale del mercato pubblicitario: i brand hanno iniziato a comunicare utilizzando gli stessi formati e lo stesso linguaggio degli editori e dei content provider al fine di raccontare la marca e i suoi valori. In definitiva, le imprese sono diventate esse stesse editori, produttori e distributori di contenuti pregiati. In questo quadro, i destinatari del messaggio non sono più “soltanto” un target ma un vero e proprio audience. Chi oggi intende comunicare è in grado di articolare il proprio investimento in diverse forme di comunicazione, delle quali la tradizionale pubblicità c.d. “tabellare” costituisce soltanto uno dei mezzi a disposizione. Il catalogo delle possibilità si è arricchito nel corso del tempo di tutte quelle forme di comunicazione nelle quali l’accostamento del brand al contenuto editoriale è stato sempre più intenso. Le sponsorizzazioni, i publiredazionali, le telepromozioni e le forme di pubblicità “more time consuming”, sono tutte declinazioni diverse per raggiungere un unico rilevante obiettivo: offrire al pubblico un contenuto che non sia esclusivamente pubblicitario ma che generi interesse presso il pubblico, che sia cioè “engaging”.  Raccontare una storia o, in alcuni casi, essere oggetto della storia è diventato essenziale per riuscire a coinvolgere i fruitori dei messaggi. Eppure lo storytelling non è un’invenzione recente bensì una forma di comunicazione che ha radici lontane. Due esempi su tutti: le soap opera veicolate dalle radio (prima ancora che dalla televisioni) e il Carosello trasmesso dalla RAI per oltre vent’anni. In entrambi i casi, la pubblicità non costituisce un prodotto di stock, di taglio breve, inserito massivamente e ripetutamente nei palinsesti ma, al contrario, essa si accompagna a un contenuto editoriale con una struttura narrativa più o meno complessa, con la capacità di creare un appuntamento di visione atteso dal pubblico. La comunicazione commerciale sembra riprendere quelle forme per tornare a essere, sulle diverse piattaforme, al centro della conversazione. Il tentativo è quello di alterare il modello di comunicazione unidirezionale “one to many”, dall’impresa al consumatore, per passare a forme “one to one” che consentano alle imprese di dialogare con il pubblico, utilizzando le forme, le modalità e gli strumenti utilizzati dal proprio target. Nel contesto dei social networks ciò ha condotto all’evolversi di forme di comunicazione “many to many” in cui ciascuno è produttore, distributore e fruitore di contenuti. Con l’inserimento dei messaggi nei “feed” delle diverse piattaforme la diffusione è (o dovrebbe essere) garantita dalla condivisione tra utenti ovvero da forme di pianificazione sempre più sofisticate. In un contesto in cui la circolazione delle informazioni è estremamente rapida, c’è uno spazio ridotto per le forme pubblicitarie tradizionali che rischiano di essere considerate dagli utenti finali una mera interferenza rispetto al flusso di contenuti diffusi dai media. Le imprese hanno dovuto imparare a utilizzare un linguaggio che riuscisse a intrattenere gli utenti, nelle forme normalmente utilizzate dai produttori di contenuti. In questo modo, il branded entertainment (nelle sue molteplici declinazioni) è diventata una delle forme espressive a disposizione o, addirittura, una specie del più ampio genere dell’intrattenimento. Secondo alcuni l’evoluzione dei media procede di pari passo con l’evoluzione del pubblico. Allo stesso tempo non può dubitarsi che i cambiamenti in corso stiano imponendo un ripensamento dei modelli pubblicitari. Il risultato è  una moltiplicazione esponenziale del numero di editori e dei produttori: ogni impresa ha l’ambizione di raccontarsi attraverso un contenuto, di veicolarlo e di farlo veicolare. E ciò non può non avere un impatto sulla stessa evoluzione dei media e sul modo attraverso cui il pubblico percepisce, interpreta e decodifica i messaggi dei quali è destinatario. Questa premessa è indispensabile per descrivere il contesto nell’ambito del quale deve essere declinato uno dei concetti alla base della disciplina giuridica della comunicazione commerciale e che costituisce uno spartiacque tra le forme lecite e quelle non trasparenti: la riconoscibilità del messaggio pubblicitario... (segue)



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