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NUMERO 4 - 14/02/2018

 Il conferimento dell'incarico per formare il governo tra potere legislativo e potere esecutivo, verso quale forma di governo? Alcune note a margine dei discorsi dei Padri costituenti

Il problema dell’attribuzione dell’incarico di formare il governo da parte del Presidente della Repubblica è inevitabilmente connesso al rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo e, in definitiva, alla forma di governo, indubbiamente determinata dal sistema dei rapporti tra questi due poteri. Per quanto modificate in qualche modo, da alcuni decenni, le dinamiche dei rapporti tra Parlamento e Governo a favore di una maggiore crescita del potere dell’esecutivo con inevitabili riflessi anche sul ruolo, divenuto più interventista, del Presidente della Repubblica, il potere di nomina del Capo del Governo resta collegato al permanere di elementi riguardanti le modalità di funzionamento del sistema del Parlamento in rapporto con il Governo. Questo è un dato incontrovertibile, ben noto agli stessi Padri costituenti. Partendo dalla forma di governo e quindi dalle diverse classificazioni allora note, laddove lo sguardo costante era rivolto all’intima connessione tra organo legislativo ed esecutivo, si è inteso poi definire anche il ruolo che il Capo dello Stato avrebbe dovuto assumere nel rapporto di equilibri politici tra questi due principali attori costituzionali. Individuati tutti gli elementi che dovevano necessariamente entrare in gioco nella struttura costituzionale tra i quali, “anzitutto” il  Capo dello Stato poi un Governo, Camere e il popolo, il primo punto alla base della decisione costituzionale preso in considerazione ha riguardato il ruolo che la Costituzione che si andava delineando intendeva riservare al Popolo: ci si chiedeva cioè se a questo dovesse essere “affidata una funzione di preposizione alla carica dei titolari degli organi costituzionali elettivi, oppure (…) il potere di designare anche gli indirizzi politici”, configurandosi, infine, quale “organo di espressione di una concreta volontà politica”. La scelta, dettata anche dalla volontà di assecondare la tendenza mostrata dalle democrazie successive alla seconda guerra mondiale, fu quella di non voler più configurare, come nel secolo precedente, il popolo come organo di decisione politica. Alla luce di questo primo “orientamento” furono così passate al vaglio le diverse ipotesi di forma di governo, scartandosi, in maniera decisa quella presidenziale per timore, come è ben noto, di un eventuale abuso di potere del Presidente in ragione dell’accentramento in esso di un complesso di poteri non limitabile da parte dell’organo parlamentare. La preoccupazione in questo caso non fu però solo il rischio di ‘degenerazioni’ del sistema. Motivo di apprensione era anche la possibile paralisi del funzionamento dello Stato qualora il Capo dello Stato, derivante da un’investitura diversa, si fosse trovato in presenza di Camere di ispirazione politica non in piena armonia con la sua. In ragione di ciò si escluse allora anche l’ipotesi assembleare: pur fondandosi sulla fiducia quest’ultima forma di governo non consentiva il ricorso all’istituto dello scioglimento anticipato dell’Assemblea. L’elemento in questo caso avvertito come critico, costituente il ‘cardine’ dell’assetto costituzionale che si andava delineando, riguardava la possibilità di verificare la permanenza della rispondenza degli orientamenti dell’organo elettivo con quelli popolare, verifica resa impossibile dalla durata fissa dell’Assemblea, immodificabile pure a fronte dell’eventuale sfiducia espressa al Governo. Questa rigidità sembrava porsi in netta contrapposizione con l’idea che si voleva sviluppare, ovvero con quella concezione che guardava al popolo come a un soggetto chiamato a intervenire qualora gli organi costituzionali dello Stato e, in particolare, il Governo e le Camere, non fossero più in grado di funzionare... (segue) 



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