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NUMERO 10 - 09/05/2018

 L'incerto futuro del regionalismo differenziato sul piano finanziario

La legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha modificato il Titolo V, parte II della Costituzione, è il punto di arrivo di un travagliato percorso di attuazione dei principi di autonomia e sussidiarietà in Italia. Tale percorso, pur avendo avuto in termini legislativi un seguito nella legge delega n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, ha tuttavia subito un arresto “certificato” dalla Corte costituzionale, oltrechè dall’inerzia e dall’insufficienza del legislatore delegato rilevate dalla maggior parte della dottrina. Il giudice delle leggi, in particolare, dopo un periodo in cui è sembrato voler assecondare il progetto federalista e, insieme, razionalizzarlo, ha cambiato gradualmente strada prendendo spesso le distanze, specie sul piano del coordinamento finanziario, dalla logica autonomistica cui è ispirato il terzo comma dell’art. 117 Cost.. Secondo tale disposizione, infatti, il coordinamento della finanza pubblica spetta alla competenza legislativa delle Regioni, restando riservata a quella statale solo la determinazione dei principi fondamentali. In verità, inizialmente, prima del 2011 esso con numerose sentenze (nn. 417 del 2005; 4, 36 e 390 del 2004 e 376 del 2003 e altre ancora) aveva dato credito al disegno autonomista individuando dei limiti abbastanza rigorosi per lo Stato. Aveva, cioè, precisato che i vincoli statali alla spesa regionale, per potersi considerare rispettosi dell'autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali, dovevano avere ad oggetto, ai sensi dell’art. 117 Cost., o l'entità del disavanzo di parte corrente oppure – ma solo in via transitoria e in vista di specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale – la crescita della spesa corrente degli enti autonomi. Per la Corte la legge statale poteva, in via di “coordinamento finanziario per principi fondamentali”, «stabilire solo un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa». Il coordinamento finanziario così inteso non poteva, quindi, avere ad oggetto le specifiche spese compiute dall'ente territoriale, ma doveva al massimo operare una valutazione complessiva delle stesse. In coerenza con questa linea interpretativa, la Corte aveva affermato, con la sentenza n. 390 del 2004, che la previsione da parte della legge statale di limiti all'entità di una singola voce di spesa non poteva essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, perchè poneva «un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolveva, perciò, in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell’area riservata alle autonomie regionali e degli enti  locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non può imporre nel dettaglio gli strumenti concreti per raggiungere quegli obiettivi» (vedi anche sentenza n. 417 del 2005, punti nn. 5.3 e 6.3 del considerato in diritto). Dopo il 2011 e almeno fino al 2015 la Corte ha capovolto questa impostazione, dando una lettura decisamente estensiva della competenza statale in tema di coordinamento finanziario, fino al punto da trattarla sostanzialmente come una materia di competenza esclusiva statale. Questa posizione è ben riassunta nella recente sentenza n. 64 del 2016, nella quale la Corte ricorda (punto n. 6.1. del considerato in diritto) di avere più volte affermato che la finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali è «parte della finanza pubblica allargata e che, pertanto, il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali» (nello stesso senso, sentenze nn. 44 e 79 del 2014 e n. 182 del 2011). Ne consegue, sempre per la Corte, che le disposizioni statali che impongono limiti alla spesa regionale costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica (solo) «alla duplice condizione che: a) prevedano un limite complessivo, anche se non generale, della spesa corrente, e lascino alle Regioni libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa; b) abbiano il carattere di transitorietà». Con riguardo alla prima di tali condizioni – la fissazione di un limite complessivo – la Corte ha affermato che essa deve ritenersi soddisfatta anche da disposizioni statali che prevedono «puntuali misure di riduzione di singole voci di spesa, sempre che da esse possa desumersi un limite complessivo, nell’ambito del quale le Regioni restano libere di allocare le risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (sentenza n. 139 del 2012), essendo in tale caso possibile l’estrapolazione dalle singole disposizioni statali di principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale (sentenze nn. 139 del 2012 e 182 del 2011, nonché nn. 236 e 36 del 2013)». Non è questa la sede per fare un più lungo commento su tale evidente cambiamento di indirizzoMi limito a sottolineare che il révirement è difficilmente comprensibile sul piano logico, oltrechè sul piano dell’applicazione letterale del richiamato art. 117, terzo comma. Esso pone, infatti, una condizione quasi impossibile per qualificare i principi fondamentali, e cioè l’enucleazione di detti principi sulla base di una disciplina – quella statale che fissa puntuali misure di riduzione di singole voci di spesa – che è essa stessa, e non può non esserlo, di dettaglio… (segue)



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