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NUMERO 24 - 19/12/2018

 La spinosa questione della partecipazione dei magistrati alla vita politica

La Corte costituzionale, con sentenza n. 170 del 2018, ha ritenuto infondate le questioni di legittimità sollevate dalla Sezione disciplinare del C.S.M. sulla presunta incostituzionalità dell’illecito disciplinare a carico del magistrato che si iscrive o partecipa in maniera continuativa all’attività politica. Ancora una volta, dopo le celebri sentenze n. 224 del 2009 e n. 100 del 1981, la Corte torna sullo spinoso tema della partecipazione dei magistrati alla vita politica, negando che il divieto di iscrizione o di partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici possa compromettere quei valori fondamentali di natura politica che spettano al magistrato in quanto cittadino. Secondo il Giudice delle leggi, un conto è l’iscrizione o comunque la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito politico, che la fattispecie disciplinare in questione vieta, un altro è l’accesso alle cariche elettive e agli uffici pubblici di natura politica che, con determinati accorgimenti, deve essere garantito anche al magistrato in quanto cittadino. Dunque, è lecito candidarsi ma non partecipare alla vita politica con quella stabilità e quella pregnanza che vengono sanzionate disciplinarmente dalla normativa primaria, il cui tenore «si sottrae a censure d’illegittimità costituzionale proprio perché consente al giudice disciplinare le ragionevoli distinzioni richieste dalla varietà delle soluzioni che la vita politico-istituzionale presenta». Ecco, dunque, la reale portata della sentenza in commento, che non esaurisce i suoi effetti nel caso di specie, ma si inserisce nel più ampio quadro del delicato rapporto tra magistratura e politica e nella partecipazione attiva della prima nella seconda. Infatti, in tempi di conflittualità sempre più aspra tra politica e magistratura, sembra opportuna una riflessione che si focalizzi proprio su questi temi. Come sottolineato da più parti, diventa predominante «l’esigenza di una distensione dei rapporti tra sfera politica e sfera giudiziaria, evitando gli evidenti rischi di una reciproca delegittimazione», estremamente dannosa per entrambi i protagonisti. Tale auspicabile distensione, tuttavia, non sembra percorribile senza un “raffreddamento” del confronto intorno alle questioni attinenti alla giustizia; sotto tale profilo, risulta fondamentale la necessità di porre confini più marcati nel rapporto tra magistratura e politica, soprattutto con riferimento alla possibilità per un magistrato di intraprendere la carriera politica, in maniera più o meno definitiva. Tale esigenza non è di poco conto, posto che la questione della regolazione delle attività politiche svolte dai magistrati intreccia diversi temi che spaziano dal diritto di partecipazione politica dei magistrati, ai limiti all’elettorato passivo per l’elezione ai vari livelli di governo, attraversando il delicato tema della separazione dei poteri. Peraltro, non si può non rilevare come non esista una disciplina unitaria sul punto; è necessario, dunque, ricostruire le fondamenta del problema prendendo in considerazione il quadro costituzionale (per vero alquanto laconico) e legislativo, senza trascurare gli interventi della giurisprudenza del Consiglio superiore della magistratura e, soprattutto, della Corte costituzionale. La vaghezza che impronta il sistema italiano sul punto, inoltre, è stata recentemente messa in luce anche nell’ambito del Consiglio d’Europa e, in particolare, dal GRECO (Gruppo di stati contro la corruzione), che ha osservato che «i magistrati […] dovrebbero astenersi dallo svolgere attività politica pubblica e la disciplina nazionale dovrebbe limitare in modo netto l’esercizio delle attività politiche dall’esercizio delle proprie funzioni, così da garantire non solo la reale indipendenza dei magistrati, ma anche che essi siano percepiti come tali». È, dunque, proprio dal dettato costituzionale e da quello normativo che è necessario prendere le mosse per cercare di fornire una risposta all’interrogativo che è insito nell’annosa questione della partecipazione dei magistrati alla vita politica: i limiti che il Costituente e, in seconda battuta, il legislatore pongono per i magistrati con riferimento ai rapporti con la politica, devono essere intesi come ostacoli al pieno e completo esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti anche al magistrato, in quanto cittadino, o, piuttosto, debbono essere interpretati come un necessario corollario all’indipendenza e all’imparzialità della delicata funzione che i magistrati sono chiamati a svolgere, anche e soprattutto per la percezione di giustizia in cui si imbattono i cittadini?... (segue)



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