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NUMERO 1 - 09/01/2019

 Sulla scelta dei ministri: verso un mutamento della forma di governo?

La recentissima questione innescata dal rifiuto del Presidente della Repubblica di nominare a Ministro dell’Economia il prof. Paolo Savona, infine nominato Ministro per gli Affari europei nell’ambito della compagine governativa presieduta dal prof. Giuseppe Conte, suggerisce un’analisi condotta sul piano giuridico-istituzionale per verificare se l’ordinamento italiano sia ancora una forma di governo parlamentare e, se lo sia ancora, di quale tipo; oppure, diversamente, si sia ormai di fronte ad una sorta di ibrido che renderebbe forse necessario un intervento di revisione costituzionale. Interrogativo che non è facile da sciogliere sia perché l’istituto del Presidente della Repubblica–Capo dello Stato ab origine si presenta ambiguo ed intrinsecamente contraddittorio, espressione di tendenze che non hanno trovato armonica composizione nel disegno costituzionale, ma si sono disorganicamente sovrapposte, sia perchè dopo settanta anni di Repubblica le situazioni politiche che si sono concretamente presentate sono state a tal punto variegate, tali da evidenziare un così differenziato ventaglio di “risposte presidenziali” che tentare di ricondurre tutto ad una concezione univoca del ruolo e della figura del Presidente della Repubblica appare impresa nel suo complesso ardua e forse anche inutile, visto che l’istituto presidenziale sembra dotato di una elasticità del tutto peculiare, tale da costituire nel medesimo tempo sia un elemento di imprevedibilità dei comportamenti presidenziali sia un pregio, rendendo tale organo capace di adattarsi ai più diversi scenari politici, fino a presentarsi nelle situazioni emergenziali, come autorevolmente sostenuto in dottrina, o come un «potere di riserva» del potere esecutivo ovvero come il «reggitore dello Stato nei momenti di crisi». D'altronde la problematicità del ruolo del Presidente–Capo dello Stato, che traspare assai nitidamente anche dall’esame dei lavori dell’Assemblea Costituente, si è resa ancor più manifesta nelle molte fasi di congiuntura politica ed istituzionale già vissute che si sono caratterizzate sia per l’affermarsi di presidenze mediaticamente sovraesposte, sia per un enlargement delle funzioni presidenziali, in concomitanza di una profonda crisi del sistema dei partiti, sia per l’instaurarsi di un diverso rapporto fra cittadini e Presidente della Repubblica e fra istituzioni del pluralismo e Presidente della Repubblica, favorito dalla personalità di alcuni degli “inquilini del Quirinale”, sia per un coinvolgimento sempre più marcato del Presidente della Repubblica nella sfera dell’azione di governo. Naturalmente questo dell’accentuata problematicità dell’istituto presidenziale è un elemento niente affatto nuovo nella riflessione della giuspubblicistica che sin dall’inizio lo ha affrontato proprio in tali termini, sia perché si trattava di un istituto nuovo rispetto al quale l’esperienza statutaria prefascista non poteva soccorrere più di tanto, sia perché, come veniva largamente sottolineato anche dagli stessi Costituenti, avrebbe dovuto essere la prassi a riempire gli spazi bianchi lasciati dalla disciplina costituzionale dell’istituto. In questo quadro si può pertanto comprendere come i diversi modelli presidenziali proposti in dottrina, tesi a superare le incertezze connesse ad un esatto inquadramento dell’organo Presidente della Repubblica, si siano in realtà presentati come tentativi di razionalizzazione dell’istituto presidenziale chiamati a fare i conti (oltre che a prestarsi alle critiche più o meno marcate mosse dalla dottrina stessa) con attività e comportamenti presidenziali fortemente divergenti o, quantomeno, irriducibili al modello presidenziale proposto. D’altra parte la mancata stabilizzazione, in svariati ambiti, di prassi presidenziali uniformi e la permanente correlativa difficoltà di determinare inequivocamente, sulla base delle sole disposizioni costituzionali, i margini di manovra del Presidente della Repubblica nei singoli momenti di crisi, ha costantemente posto gli interpreti davanti al bivio: o di “inseguire” i comportamenti tenuti dai singoli Presidenti della Repubblica, operandone ex post una efficiente sistemazione teorica, ovvero di comparare i medesimi comportamenti coi diversi figurini presidenziali proposti, giudicandoli a questa stregua costituzionalmente corretti o non corretti. Peraltro, se si riguarda la dottrina nei trascorsi decenni, si deve osservare come questa abbia largamente insistito su di una crisi delle configurazioni tradizionali della figura e del ruolo presidenziale, ponendosi in particolare l’accento sull’esigenza di un’interpretazione evolutiva delle stesse. Più in generale si è giunti ad osservare come sarebbero largamente insoddisfacenti ambedue i tipi di approccio al problema della definizione dell’istituto presidenziale: tanto quello prescrittivo, che porta ad esprimere la figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica in termini di un dover essere costituzionale, visto che si presenta eccessivamente svalutativo degli elementi forniti dalla prassi, quanto quello descrittivo che, risolvendosi in una razionalizzazione ex post del ruolo effettivamente tenuto dal (singolo) Presidente della Repubblica, conduce ad una sorta di implicita abdicazione circa la possibilità di delineare un quadro di riferimento unitario sulla cui base valutare l’operato presidenziale. Ed in effetti anche chi più di altri ha mantenuto ferma per la dottrina la necessità metodologica di indicare in termini prescrittivi la figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica, ha poi dovuto riconoscere l’insufficienza di un tale approccio di fronte a elementi di evidente alterazione dell’assetto politico-istituzionale. Punto di arrivo di questa riflessione è stata l’accentuata sottolineatura dell’esistenza di obiettive ragioni che si frappongono ad una interpretazione univoca ed unitaria dell’istituto presidenziale. Sul punto si è in primo luogo segnalato come ciascuno degli eletti alla carica di Presidente della Repubblica sia portatore di una propria personale visione del ruolo che deve rivestire. Dato che, se è significativo perché non di puro fatto, riflettendo la natura monocratica che la Costituzione ha assegnato all’organo Presidente della Repubblica, non va però neppure enfatizzato, visto che tale propensione è in realtà decisivamente orientata dalla situazione politica in cui il Presidente della Repubblica si trova ad operare. Secondariamente è stato diffusamente evidenziato, sulla scorta di un’ampia analisi politica ed istituzionale, il fatto che quanto più il sistema dei partiti si presenta in crisi, o, se si vuole, quanto più il circuito della rappresentanza partitico-parlamentare appare incapace di fornire risposte adeguate ed efficienti alle domande di policies che provengono dalla società civile, tanto più si ampliano gli spazi concessi “alle sedi di controllo, garanzia, arbitraggio situate in posizione di relativo distacco dal sistema dei partiti”.  Tuttavia la ragione che più di ogni altra è stata messa in evidenza dalla dottrina per spiegare le difficoltà ad interpretare in modo univoco la figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica, è stata ricondotta alla medesima Carta costituzionale ed, in definitiva, alla problematicità dell’innesto, all’interno di un ordinamento repubblicano a governo parlamentare, quale quello che si andava delineando in sede di Assemblea Costituente, di un organo monocratico in funzione di Capo dello Stato. In proposito si è dato particolarmente rilievo al fatto che nella Carta fondamentale italiana la definizione dell’istituto presidenziale sia rimasta, per così dire, prigioniera delle incertezze dei Costituenti e della contrapposizione fra chi immaginava una, seppur riveduta, riproposizione del modulo dell’esperienza statutaria prefascista e chi prospettava il suo radicale superamento, fra chi voleva un Presidente con funzioni meramente simboliche, temendone un irresolubile antagonismo con le Camere e chi lo prefigurava come un Presidente custode del patto politico sancito con la Costituzione, garante dell’unità (in senso non solo spaziale, ma anche temporale e dunque) comprensiva della continuità storica della Nazione italiana. Di ciò si avrebbe un preciso riscontro in Costituzione, la quale difatti traccerebbe una trama a maglie larghe dell’istituto presidenziale che, se, come detto, può avere il merito di renderlo adattabile a scenari politici profondamente diversi, in modo da consentire la più ampia funzionalità del sistema, tuttavia ne determina una forte ambiguità ed una elevata indeterminatezza. Questo tuttavia non significa che sia impossibile delineare il confine entro il quale le competenze del Capo dello Stato possono e debbono essere esercitate, anche perché, come accennato all’inizio, esse incidono sulla forma regiminis. Già con il Presidente Napolitano si era parlato di «presidenzialismo di fatto» e anche di «presidenzialismo a Costituzione invariata» o anche di «torsione semipresidenzialistica», avendosi riguardo alla peculiare sintonia tra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio, che, ab origine, aveva connotato l’esperienza del governo Monti (e per vero, anche se in modo meno appariscente, quella dei governi successivi), capace di evocare il rapporto che nella forma di governo francese lega questi due organi in caso di couplage fra la maggioranza presidenziale e quella parlamentare. Valutazione che a ben vedere poteva riferirsi pure a governi meno recenti come quello Ciampi o quello Dini voluti dal Presidente Scalfaro nel 1993 e nel 1995. In questo senso si consideri che in dottrina è stato esattamente osservato che, ove al Quirinale dovesse essere eletto «il leader di un partito che dispone della maggioranza in Parlamento … i concreti contorni della figura del Presidente con tutta probabilità sarebbero destinati a mutare radicalmente», potendosi «così assistere all’affermarsi di un modello di tipo francese senza modifiche formali alla Costituzione, ma solo attraverso il mutare dei rapporti politici», visto che se il Capo dello Stato potesse contare su una solida e fedele maggioranza parlamentare il Presidente del Consiglio sarebbe un uomo di sua fiducia. Sebbene debba poi osservarsi che se è vero che nel vigore dell’attuale Costituzione non può davvero escludersi che, anche senza l’attivazione della procedura di revisione della Carta, solo con il mutare dei rapporti politici fra Presidente, Governo e maggioranza parlamentare, si possa transitare da una forma di governo parlamentare ad un “governo del Presidente”, è però altrettanto vero che un tale trapasso potrà dirsi compiuto solo in presenza di una sua stabilizzazione, risultando, ad esempio, accompagnato dal formarsi di consuetudini costituzionali derogatorie, senza di che, magari per il mutare delle condizioni politiche, magari per la reazione delle forze politiche, si rimarrebbe nell’ambito di uno scontro sul corretto funzionamento del sistema e sul corretto esercizio delle competenze presidenziali (ma sul punto si tornerà più avanti)… (segue)



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