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FOCUS - Osservatorio di Diritto sanitario

 Corte Costituzionale, Sentenza n. 135/2024, La Corte costituzionale ribadisce e precisa i requisiti per il suicidio assistito

Pres. A.A. Barbera – Rel.  F. Modugno e F. Viganò

Suicidio assistito - Questione di legittimità costituzionale art. 580 c.p. – Infondata – Requisiti per l’accesso al suicidio assistito – Ribaditi – Interpretazione requisito dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale – Precisata.

Condizioni procedurali di cui alla sentenza 242 del 2019 – Ribadite – Diritto fondamentale di rifiutare i trattamenti medici inclusi quelli necessari a garantire la sopravvivenza – Garantito.

Generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile – Non riconosciuto – Pazienti che non dipendono da trattamenti di sostegno vitale – Disparità di trattamento – Esclusa – Necessità per lo Stato di tutelare persone deboli e vulnerabili – Prevale.

Nozione di trattamenti di sostegno vitale – Precisata – Inclusione di tutte le procedure necessarie per la sopravvivenza del paziente che possono essere rifiutate – Riconosciuta – Uguaglianza posizione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale e paziente che non vi è ancora sottoposto ma ha ormai necessità di tali trattamenti – Riconosciuta.

Auspicio intervento del legislatore – Ribadito.

La Corte costituzionale, con la pronuncia in epigrafe, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, ha ribadito i requisiti per l’accesso al suicidio assistito già presenti nella sentenza n. 242 del 2019 e ha precisato la corretta interpretazione del requisito dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale.

Anzitutto la Corte ha ricordato le condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019, secondo cui l’operatività del divieto di assistenza al suicidio non opera quando: (a) una persona è affetta da una patologia irreversibile, la quale sia (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, e che è (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Ciò in quanto, ha ricordato la Corte, dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. discende il diritto fondamentale del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico, inclusi quelli necessari a garantirne la sopravvivenza; diritto sul quale si fonda la valutazione di irragionevolezza del divieto di aiuto al suicidio prestato in favore di chi già abbia la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando un trattamento di sostegno vitale.

Con la pronuncia del 2019, tuttavia, la Corte non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure.  La Corte ha così escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti, affermando che: La subordinazione della legittimità dell’aiuto al suicidio alla condizione di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non contrasta con l’articolo 3 della Costituzione, in quanto è ragionevole limitare l’accesso al suicidio assistito solo a quei pazienti che si trovano in condizioni di sofferenza intollerabile e che mantengono la capacità di prendere decisioni. Ciò al fine di prevenire anche il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, pericolo che aveva indotto la Corte prima a sollecitare prioritariamente l’intervento del legislatore (ord. n. 207 del 2018) e poi ad affermare la necessità – in questa sede ribadita – del puntale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019. Tali condizioni sono inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2. Tale procedura prevede il necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, al quale è affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze» (sentenza n. 242 del 2019). Inoltre, in attesa di un organico intervento Considerato in diritto del legislatore, la sentenza n. 242 del 2019 richiede il necessario parere del comitato etico territorialmente competente.

 

Ciò posto la Corte ha tuttavia specificato la nozione di trattamenti di sostegno vitale, che deve essere interpretata dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio dell’ordinanza n. 207 del 2018 e della sentenza n. 242 del 219 in modo da includere procedure necessarie per la sopravvivenza del paziente, tutte le quali possono essere legittimamente rifiutate. Pertanto, nella misura in cui le procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, che potrebbero essere apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente – quali l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali –, si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la sua morte in un breve lasso di tempo, esse dovranno essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale. Tutte queste procedure possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto.

La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019.

 

Infine, la Corte ha ribadito il forte auspicio che il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati.



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