Log in or Create account

FOCUS - Osservatorio sul diritto elettorale

 Le elezioni legislative francesi. Tanto rumore per nulla? Forse no

Il 5 settembre 2024 il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, dopo un lungo periodo contrassegnato da fatti alquanto inediti per la vita politica e istituzionale della V Repubblica, ha nominato Primo Ministro Michel Barnier, consentendo, finalmente, ai francesi di assistere, dopo esattamente due mesi dall’espressione del voto elettorale, alla formazione di un nuovo Esecutivo.

In una prospettiva comparativa, per la prima volta dalla nascita della V Repubblica, gli eventi occorsi dopo le elezioni del 30 giugno (I turno) e 7 luglio (II turno) scorsi, sono sembrati, accorciare molto le distanze tra le dinamiche politiche istituzionali, finora considerate tipicamente, italiane e quelle francesi. Sarebbe probabilmente necessario risalire agli eventi della IV Repubblica francese per rintracciare un Parlamento profondamente spaccato al suo interno, ostaggio di forze politiche non coese al punto da determinare un periodo di stallo così lungo nella politica francese, tale da costringere il Presidente a ipotizzare le più disparate ipotesi di coalizioni per la formazione di un nuovo Esecutivo.

Era accaduto, infatti, che Emmanuel Macron la sera stessa della pubblicazione dei risultati elettorali delle elezioni europee 2024, a seguito del notevole risultato (31%), in verità, non del tutto inaspettato, conseguito dal partito guidato da Marine Le Pen, a sorpresa, decidesse che era giunto il momento di «un temps indispensable de clarification» e, dunque, sciogliesse l’Assemblea Nazionale per non lasciare, a suo dire, inascoltate le «préoccupations» manifestate dai francesi con quel risultato elettorale.

In effetti, lo stesso scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale costituisce un fatto piuttosto inusuale per la politica francese. Era accaduto, infatti, soltanto cinque volte nella storia della V Repubblica che il Presidente della Repubblica sciogliesse anticipatamente l’Assemblea Nazionale. L’ultima volta ciò si era verificato nel 1997 quando, l’allora Presidente della Repubblica Jaques Chirac, decise di sciogliere l’Assemblée National, sperando probabilmente di replicare la condizione di un Parlamento a lui favorevole, ma fu, invece, sorpreso dalla vittoria delle forze politiche di sinistra, così da essere costretto alla più lunga coabitazione, nonché l’ultima, della storia della V Repubblica francese. Fu, infatti, proprio a seguito di quegli eventi che si decise di dar vita a quell’insieme di riforme costituzionali e istituzionali che, riducendo il mandato del Presidente da 7 a 5 anni e invertendo il calendario elettorale, hanno determinato quella condizione giuridico istituzionale, nota come «fait majoritaire» che ha ulteriormente rafforzato la posizione del Presidente della Repubblica francese come «monarca repubblicano», indebolendo, specularmente, quella del Primo Ministro, ma garantendo, grazie alla tendenziale omogeneità tra presidente e maggioranza parlamentare, degli esecutivi più o meno stabili.

A ben guardare, era sembrato che il Presidente, piuttosto che cercare la sopravvivenza di un Governo che sin dal suo esordio, avvenuto con le elezioni del giugno 2022, non aveva goduto di buona salute, in quanto senza maggioranza assoluta, consumato dalla costante ricerca di portare a casa i provvedimenti più delicati, come la discussa riforma delle pensioni, costretto ad un ampio uso  di tutti dispositivi di razionalizzazione fornitigli dalla Costituzione, tra cui ad esempio il discusso l’articolo 49.3, fiaccato da 34 mozioni di sfiducia in due anni, e pressato dal partito di estrema destra sempre più forte, avesse preferito, con una sorta di «coup de théâtre», “sparigliare le carte” e indire nuove elezioni. È stato, altresì, ipotizzato, che la strategia potesse essere anche quella di sorprendere gli avversari politici, agevolandosi della più breve campagna elettorale di sempre, appena 20 giorni, il tempo minimo prescritto dall’art. 12 della Costituzione. Tutto ciò, tra l’altro, nel particolare clima in cui il Paese si apprestava a godersi lo spettacolo dei giochi olimpici che di lì a poco sarebbero iniziati.

La speranza era naturalmente quella di sfruttare la capacità di coalizione delle maggiori forze politiche del Paese per fare «barrage» contro l’estrema destra di Marine Le Pen. A questo scopo, infatti, i partiti di sinistra, Parti socialiste, Parti communiste français, Europe Ecologie-Les Verts et La France insoumise hanno da subito annunciato l’intenzione di presentarsi compatti alle elezioni legislative, presentando un unico candidato in ogni circoscrizione, un programma comune, e dando vita al Nouveau front populaire (NFP). Coalizione, invece, tentata ma non riuscita tra le forze politiche di destra, in particolare tra il Rassemblement National, Reconquête!, e Les Républicains, seppure non senza qualche forte strappo all’interno di quest’ultimo, tanto che alcuni pezzi del partito guidato dall’ex Presidente Eric Ciotti si sono presentati con il RN. Dal canto loro, invece, le forze centriste si sono compattate nel blocco definito Ensamble pour la République, costituto dal partito macronista Renaissance, nonché da MoDem e Orizons.

La necessità di costituire «fronti comuni» tra le diverse forze politiche affini, era correlata alla peculiarità del sistema elettorale previsto per le elezioni legislative, maggioritario, quasi «all’inglese», con 577 collegi uninominali, tanti quanti sono i seggi da assegnare, e tuttavia con un doppio turno.

All’indomani del I turno il Rassemblement National sembrava potersi apprestare a ottenere una maggioranza, se non assoluta, comunque più che significativa in Assemblea Nazionale, avendo ottenuto, con il 33,2%, più di 10 milioni e mezzo di voti, e l’immediata elezione di 38 deputati. L’unione delle sinistre aveva ottenuto il 28,1% dei voti, con 32 deputati eletti, mentre il blocco macronista di Ensemble era andato meglio delle previsioni con il 21,6% ed eleggendo, in prima battuta, soltanto due deputati. Anche i Repubblicani avevano subìto una flessione con appena il 7,2% ed un solo deputato eletto.

A questo punto occorre ricordare la peculiarità di questo sistema elettorale per cui nell’ipotesi in cui non tutti i seggi in palio vengano assegnati al I turno, perché i candidati non hanno soddisfatto la duplice condizione di aver ottenuto più del 50% dei voti e che il numero dei voti espressi rappresenti più del 25% degli elettori iscritti nel collegio elettorale di quella circoscrizione, si svolge un II turno cui accedono i candidati che hanno ottenuto al I turno un numero di voti almeno pari al 12,5% del numero degli elettori iscritti nella circoscrizione elettorale[1]. Può, dunque, accadere che al I turno venga assegnata solo una minima quota dei seggi, e che al II turno si verifichi non sempre un ballottaggio tra i due candidati più votati, ma anche quell’ipotesi che i francesi definiscono di «triangulaire» o «quadrangulaire», vale a dire che concorrono due, tre o perfino quattro candidati in una medesima circoscrizione.

In effetti, all’indomani del I turno svoltosi tra il 29 e il 30 giugno si è verificata, anche a questo proposito, una condizione inedita con un numero record di più di 300 «triangulaire» (il precedente record era di 78 nel 1997) 5 quadrangulaire e 190 «duelli». Il tutto per una posta in gioco di più di 500 seggi non ancora assegnati.

È in ragione di questa peculiare condizione determinata dal sistema elettorale che per fare «barrage» contro l’estrema destra sia il NFP che il blocco macronista hanno adottato la tecnica della «désistance», vale a dire ritirare il rispettivo candidato, arrivato secondo o terzo in una circoscrizione, per coagulare il voto degli elettori verso un unico candidato antilepenista[2].

La strategia, in effetti, ha avuto successo, le forze politiche centriste e di sinistra sono riuscite a bloccare l’avanzata del gruppo guidato da Marine Le Pen. Il costo pagato è stato però alto. Il risultato, infatti, è stato quello di un’Assemblea Nazionale mai così spaccata, con nessuna forza politica in grado di ottenere la maggioranza assoluta e, specularmente, molte potenziali coalizioni in grado di sfiduciare un Governo appena insediato.

 Principalmente quattro sono, infatti, all’esito delle elezioni, le anime che compongono l’Assemblea Nazionale: il Nouveau Front Populaire ha ottenuto 182 seggi, il gruppo di Ensemble occupa 168 seggi, il Rassemblement National si è fermato a 143, ed infine, i Républicains hanno ottenuto 47 seggi, cui vanno sommati i “ciottisti”, vale a dire i fuoriusciti dal partito repubblicano e sostenitori dell’ex Presidente Enric Ciotti, con 17 seggi.

In questo contesto, mai così complesso, si è rivelato particolarmente arduo il compito del Presidente della Repubblica per la nomina del Primo Ministro. Macron si è trovato, infatti, nella condizione di voler evitare una cohabitation, e mirare necessariamente a un Governo di coalizione, che gli fosse il più congeniale possibile. L’art. 8 della Costituzione, infatti, non impone necessariamente al Capo dello Stato di nominare il leader del partito che ha la maggioranza in Parlamento e, d’altra parte, proprio per far fronte a condizioni di potenziale instabilità, l’art. 49.1 Cost, in tema di fiducia inziale, non impone al Governo appena insediato di ottenere la fiducia. Ciò implica che sono, senz’altro, possibili governi senza maggioranza assoluta – come, d’altra parte, gli ultimi erano già i due esecutivi della precedente legislatura - ma la principale preoccupazione del Presidente della Repubblica era quella di non dare vita a un Governo che appena nato potesse essere messo in crisi da un voto di censura ex art. 49.2, come potrebbe accadere se le altre forze politiche rimaste fuori dal governo si coagulassero per votare la sfiducia.

In due mesi di stallo, diversi giri di consultazioni, fatto del tutto inedito per la V Repubblica francese, molte ipotesi di coalizioni, e numerosi nomi di papabili Primi Ministri (Bernard Cazeneuve, a sinistra, Xavier Bertrand, a destra, e Thierry Beaudet come tecnico), la scelta è ricaduta su Michel Barnier, un esponente, ironia della sorte, del partito con il minor numero di seggi in Parlamento, Les Républicains. Fuori dall’Esecutivo la coalizione di maggioranza relativa, NFP, che, senza una effettiva capacità di coalizione aveva da subito proposto come Primo Ministro Lucie Castets, giovane funzionaria del Comune di Parigi.

Il nuovo Primo Ministro è un politico di grande esperienza, gaullista di vecchia data, più volte Ministro, già Commissario europeo, capo negoziatore delle condizioni di uscita della Gran Bretagna dall’UE. Pare, in effetti, ipotizzabile che in un clima così incerto, stretto tra le minacce di censura del Rassemblement National, da un lato, e l’incapacità di coalizione con altre forze politiche della France Insoumise, ma pure del partito socialista, dall’altro, Macron abbia deciso di puntare specialmente sulla capacità negoziale di Barnier. Sulla carta il neo Primo Ministro dovrebbe poter contare, oltre che sul suo partito, sul blocco macronista, e sull’avallo, o quanto meno su un non rifiuto di Marine Le Pen. L’Esecutivo Barnier non ha effettivamente la maggioranza assoluta ma, sfilandosi il Rassemblement National, non avrebbe neanche la maggioranza contraria per essere sfiduciato.

A ben vedere, a governare la Francia sarà l’insieme delle forze politiche che già la governavano prima delle europee, vale a dire il blocco centrista, con l’appoggio dei repubblicani, grazie ai quali erano stati votati la gran parte dei testi della scorsa legislatura.

Molto rumore per nulla, dunque? Il fatto è che in queste elezioni tutti hanno vinto e tutti hanno perso. Marine Le Pen può dire di aver vinto il primo turno, e di aver perso “solo” perché tutte le altre forze politiche (tranne i repubblicani) hanno fatto «barrage». La sinistra, e il centro possono dire di aver vinto per aver impedito un governo di estrema destra, ma non hanno comunque ottenuto un numero di seggi tale da consentirgli di formare un esecutivo con la maggioranza assoluta, né sono stati in grado di coagularsi seriamente tra loro per governare.

 Non restava allora, e in questo l’Italia è stata spesso un esempio, che ricorrere a delle coalizioni e, dunque, a vincere davvero è solo chi è in grado di coalizzarsi.

Certo non si può dire che le istituzioni francesi ne escano rafforzate, soprattutto quella del Presidente della Repubblica, che, in special mod,o soffre “l’appannamento” della figura di Macron, solo il tempo potrà svelare quanto tutto questo influenzerà le concrete dinamiche di questa forma di governo. Un dato certamente è da registrare, vale a dire un tasso di affluenza alle urne mai così alto dal 2000 con oltre il 66% al II turno. Sebbene, anche in questo caso, solo il tempo potrà svelare se si tratti di maggiore partecipazione civica o solo del segno di una sempre più profonda spaccatura del Paese.

 


[1] Se solo un candidato soddisfa questa condizione, potrà proseguire al secondo turno il candidato che dopo di lui avrà ottenuto il maggior numero di voti. Nel caso in cui nessun candidato soddisfi questa condizione, solo i due candidati arrivati primi potranno proseguire al secondo turno.

[2] Subito dopo il I turno il leader della France Insoumise, Jean Luc Mélanchon si era chiaramente esposto per la strategia della «désistence», dichiaradndo che: «Pas une voix, pas un siège de plus pour le RN». Più ambigua, invece, almeno formalmente, era stata la posizione del blocco macronista, sebbene Macron avesse fatto chiaramente appello «a un ampio raggruppamento chiaramente democratico e repubblicano».



Execution time: 54 ms - Your address is 13.59.82.60
Software Tour Operator