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FOCUS - Comunicazioni, media e nuove tecnologie N. 1 - 04/03/2016

 Un'occasione da non perdere: ripensare in senso oggettivo il servizio pubblico

Le costituzioni europee del secondo dopoguerra non avevano dedicato, per forza di cose, uno spazio particolare alla disciplina del sistema radiotelevisivo. Cosicché, oggi, è giocoforza far riferimento, oltre che alle singole giurisprudenze nazionali, alla disciplina europea. Nell'ordinamento europeo, la centralità del servizio pubblico radiotelevisivo, quale strumento per una compiuta realizzazione dei principi di democrazia e pluralismo, trova espresso e primario riconoscimento nel protocollo 29 allegato al Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, secondo cui “il sistema di radiodiffusione pubblica negli Stati membri è direttamente collegato alle esigenze democratiche, sociali e culturali di ogni società, nonché all’esigenza di preservare il pluralismo dei mezzi di comunicazione”. La “missione” sottesa al servizio pubblico viene, dunque, elevata al rango di principio fondamentale dell’Unione, al pari del principio della concorrenza, con cui deve trovare un reciproco e costante bilanciamento. Nel contesto nazionale, la difficoltà di operare un corretto bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco – tradizionalmente ricondotto ai principi consacrati dagli articoli 21, 41 e 43 Cost. – ha prodotto una disciplina radiotelevisiva frutto di una stratificazione normativa e di prassi attraverso le quali si è cercato, nel corso degli anni, di inquadrare e razionalizzare un sistema caotico quale quello della radiotelevisione. Tale avvicendamento normativo ha visto, come è ben noto, la Corte costituzionale svolgere un ruolo di prim’ordine, addirittura di guida del legislatore: la legge 103/1975 (prima riforma di sistema), recependo i c.d. “sette comandamenti” della Corte contenuti, nello specifico, nelle due notissime sentenze, le nn. 225 e 226 del 1974, riconfermava, in via di principio, il monopolio statale radiotelevisivo su scala nazionale di trasmissioni di preminente interesse generale (attraverso l’esclusiva della RAI) e trasferiva la gestione del sistema radiotelevisivo dal ramo esecutivo a quello parlamentare, ammettendo, tra l’altro, l’ingresso dei privati – in concessione governativa – all’esercizio delle attività di radio e telediffusione.  Attività, questa, la cui libertà veniva ribadita anche in successive decisioni (vedi sentenza n. 148/1981), con cui la Consulta aveva invitato il Legislatore a ridefinire un assetto del sistema radiotelevisivo che scongiurasse una situazione di concentrazione, ovvero di oligopolio, incompatibile con le regole di un sistema democratico, a seguito dell’accesso dei privati alla gestione del mondo radiotelevisivo. Ciò nonostante, la seconda riforma di sistema (Legge n. 223/1990, c.d. Legge Mammì) fotografava, razionalizzando a posteriori e legittimando, la situazione di duopolio RAI-Fininvest, creatasi soprattutto a seguito dei decreti nn. 694 e 807/1984 e 223 che legittimavano l’attività di radiodiffusione nazionale dell’emittente Fininvest. Sulla spinta di ulteriori interventi della Corte costituzionale (vedi sentenze nn. 420/1994 e 466/2002) il Legislatore ha, infine, dovuto superare l’impasse normativo – dovuto all’assenza di una adeguata disciplina antitrust che aveva condotto ad una eccessiva concentrazione delle risorse disponibili, in contrasto con l’art. 21 Cost. – approvando la terza riforma di sistema (la c.d. Legge Gasparri, D.Lgs. n. 177/2005)... (segue)



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