“I want to make the point that this is not a standard or normal Prorogation…. It is not typical. It is not standard. It is one of the longest for decades, and it represents, not just in the minds of many colleagues but for huge numbers of people outside an act of Executive fiat. I quite understand. I have already said that I respect Black Rod, who is doing her duty. The Queen’s Commissioners are doing their duty, and I will play my part. I completely understand”. Con queste dure parole – riportate nell’Hansard - lo Speaker della Camera dei Comuni John Bercow aveva accolto il 9 settembre la Black Rod che, secondo la tradizione parlamentare, era entrata nell’aula per dare avvio alla cerimonia della prorogation. Una cerimonia accompagnata da numerose proteste da parte dei deputati che in quella occasione avevano rumorosamente espresso la loro contrarietà nei confronti della decisione del premier. In circostanze ordinarie l’atto della prorogation in sé non ha mai avuto nulla di eversivo: come noto, esso rientra nelle prerogative del Sovrano, esercitate di fatto dall’esecutivo, e serve per porre termine alle sessioni parlamentari - solitamente di durata annuale - in cui è suddivisa la legislatura. Sin dal suo inizio, nel giugno 2017, l’attuale sessione era prevista della durata di due anni, per consentire l’esame e l’approvazione di tutte le leggi necessarie alla Brexit. Ma che la prorogation decisa dal premier Johnson il 28 agosto presentasse diversi aspetti di eccentricità rispetto a quanto avvenuto in passato era apparso evidente sotto numerosi profili. In primo luogo perché era stata preceduta da un intenso dibattito, sviluppatosi durante l’estate, sull’ipotesi teorica, avanzata durante il confronto tra i candidati per l’elezione del leader conservatore, secondo la quale il nuovo primo ministro avrebbe potuto chiedere alla Regina di porre termine alla sessione parlamentare dopo la ripresa estiva, in un periodo cruciale per il dibattito sulla Brexit. Una mossa diretta dunque sia a limitare la possibilità del parlamento di esprimersi contro l’uscita senza accordo o di ostacolare i negoziati sia ad incrementare il potere del premier – peraltro alla guida di un esecutivo di minoranza -, il quale sarebbe stato così libero di agire senza il necessario controllo della Camera dei Comuni. Al centro del dibattito – che ho già ricostruito nella pagine di questa rivista - era stata posta la giustiziabilità dell’atto, vale a dire la possibilità di un intervento delle corti diretto a bloccare la prorogation dei Comuni, intervento che poteva apparire complesso stante la natura della prerogativa regia. Le opinioni espresse in proposito dalla dottrina non erano state univoche, il che sottolinea la difficoltà di individuare il confine tra politica e diritto, tra legittimo e illegittimo, nel peculiare sistema costituzionale britannico. In secondo luogo, che la prorogation non potesse essere considerata ordinaria era apparso evidente dalle reazioni del parlamento: alla ripresa dei lavori, infatti, la Camera dei Comuni aveva fatto ricorso, ancora una volta, alla non più così inusuale procedura di assumere il controllo dell’ordine del giorno delle proprie sedute e aveva approvato, in tempi eccezionalmente rapidi e contro il volere dell’esecutivo, l’European Union (Withdrawal) (No 2) Act 2019, che ha ricevuto il royal assent il 9 settembre. La legge, polemicamente definita dal premier “surrender act”, impone al primo ministro di richiedere a Bruxelles un’ulteriore estensione di tre mesi della data di uscita dall’Unione nell’ipotesi in cui, entro il 19 ottobre, non venga approvato un accordo di recesso da parte del parlamento. La reazione del premier ha messo in luce lo stile decisionista e autoritario con cui Johnson sta cercando di caratterizzare la sua premiership: egli, infatti, ha espulso dal partito i 21 deputati conservatori che avevano votato a favore dell’atto e si è rivolto in diverse occasioni direttamente al popolo contrapponendogli il parlamento come nemico. Uno stile che non sembra essere apprezzato da tutti, come dimostrano le dimissioni dello stesso fratello del premier dal governo, ma che è emblematico dell’esacerbazione dei toni del conflitto politico tra esecutivo e legislativo. Inoltre, nelle ore immediatamente precedenti la prorogation, la contrapposizione parlamento-governo ha conosciuto anche altre manifestazioni: il 9 settembre i Comuni hanno approvato una mozione che ha imposto al governo di pubblicare tutte le comunicazioni e le note relative alla prorogation e alle conseguenze del no deal; lo Speaker Bercow ha annunciato le proprie dimissioni, dopo 10 anni di presidenza dell’Assemblea, a partire dal 31 ottobre; la Camera ha respinto, per la seconda volta, la mozione del premier per lo scioglimento anticipato. Infine, l’eccezionalità della prorogation di Johnson risiede nel fatto che la sua decisione è stata oggetto di tre diversi ricorsi giudiziari. Il primo aveva preso il via già il 30 luglio, di fronte alla mera ipotesi teorica di sospensione dei lavori dell’Assemblea, per iniziativa di 75 parlamentari dei Comuni e dei Lords guidati da Joanna Cherry dello Scottish National Party e dalla leader dei liberal democratici Jo Swinson. Il gruppo si era rivolto alla Court of Session di Edimburgo sostenendo che la sospensione dell’attività dei Comuni sarebbe stata illegittima e contraria alla Costituzione. Il giudice scozzese Lord Doherty aveva deciso di occuparsi del caso a settembre, ma quando la prorogation è stata concessa, il gruppo ha richiesto alla corte un’ingiunzione provvisoria per bloccarla immediatamente, una richiesta tuttavia respinta dal giudice. Lord Dohery il 4 settembre ha poi ritenuto la corte incompetente a decidere nel merito della questione perché non giustiziabile stante la sua natura meramente politica. Medesimo è stato anche il giudizio della seconda causa, quella intentata a fine agosto dall’avvocatessa Gina Miller, a cui si è aggiunto l’ex premier conservatore John Major, i quali si erano rivolti alla High Court di Londra per chiedere di esprimersi sulla legittimità della richiesta del primo ministro. Anche l’Alta Corte, il 5 settembre, ha infatti ritenuto la prorogation una questione di natura essenzialmente politica, che non poteva pertanto essere oggetto di giudizio da parte delle corti. Infine, anche la terza causa, questa volta avviata in Nord Irlanda di fronte alla High Court di Belfast, è stata respinta il 12 settembre perché la questione è stata giudicata di natura “inherently and unmistakeably political”. Come abbiamo detto, le opinioni espresse nel dibattito dottrinario sul tema della giustiziabilità della richiesta del premier erano state molto varie. La stessa diversità si è riscontrata anche nell’interpretazione del giudiziario, dato che il parere unanime delle tre corti di primo grado, secondo cui la natura politica dell’atto impediva il loro intervento, è stato contraddetto dalla sentenza pronunciata l’11 settembre dall’Inner House della Court of Session scozzese. Quest’ultima, infatti, in un lungo e articolato giudizio che ha costituito una base utile per la successiva sentenza della Corte suprema, ha ritenuto giustiziabile la questione e illegittima la decisione di Johnson di chiedere la prorogation dei Comuni. Così la Corte suprema, tra il 17 e il 19 settembre, ha preso in esame sia il ricorso contro la sentenza della High Court di Londra presentato da Gina Miller, sia quello del governo nei confronti della decisione della Corte scozzese. Il 24 settembre, con la sentenza R (on the application of Miller) (Appellant) v The Prime Minister (Respondent) Cherry and other (Respondents) v Advocate General for Scotland (Appellant) (Scotland), (da ora Miller 2/Cherry), la Corte suprema ha ritenuto la prorogation “unlawful” e, per la prima volta nella storia britannica, ha annullato l’Order in Council che ha stabilito la prorogation… (segue)
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