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FOCUS - Osservatorio di Diritto sanitario

 Responsabilità sanitaria

1. La responsabilità civile del medico (N.P.)
a. Premessa

Vari sono i casi in cui è possibile ravvisare una colpa medica (e, quindi, una responsabilità del sanitario per delle sue condotte lesive di un bene del paziente).

Classicamente, essa si riscontra nelle eventualità in cui il medico, ponendo in essere una condotta (attiva o omissiva) commetta degli errori nell’esecuzione della prestazione dovuta (non necessariamente chirurgica, ovviamente), provocando una lesione alla integrità fisica del paziente o al suo bene vita.

In verità, la colpa medica si ravvisa anche in ipotesi di illiceità commesse al di fuori della esecuzione del trattamento medico in senso stretto. Ad esempio, si riscontra nel caso di precoce dimissione del paziente in momenti sbagliati, nel caso di interruzione del trattamento medico e nei casi di mancato o ritardato intervento (Cass. Civ., 9 maggio 2000, n. 5881).
Ancora, può esservi una colpa medica correlata ad un errore diagnostico: ad esempio, una colpa nella diagnosi può aversi nei casi di erronea lettura di una radiografia (Tribunale di Monza, sez. I, 12 aprile 2011, n. 1130).

b. I danni risarcibili

Tali condotte mediche suddette, lesive, provocano dei danni in capo al paziente-curato. In generale, l’interessato potrà chiedere il risarcimento dei danni patrimoniali (laddove abbia per esempio dovuto sostenere delle spese per far fronte all’eliminazione dell’evento infausto provocato dalla condotta colposa) e di quelli non patrimoniali (sotto forma di danni biologici, morali o esistenziali) che sia stato costretto a sopportare.
A questo proposito, è opportuno ricordare che la legge Gelli Bianco, sulla scia dell’abrogato articolo 3 del decreto Balduzzi, ha esteso le tabelle per la quantificazione del danno biologico, già in uso in tema di danno derivante da responsabilità civile auto, quali parametri di riferimento nella determinazione del danno da responsabilità medica.
Il risarcimento, in verità, può essere chiesto anche dai terzi (iure proprio ovvero iure hereditatis), in alcune ipotesi, laddove questi siano stati lesi dalla condotta del medico. Per esempio, ciò succede quando dall’attività medica lesiva sia derivata la morte del paziente.
Un’attenzione particolare, poi, merita il tema del cd. danno da perdita di chance; ad esempio, è possibile chiedere un risarcimento del danno da perdita di chance, quando: a) se la diagnosi fosse stata tempestiva e corretta, il paziente avrebbe avuto delle chance di salvarsi (perdita di chance di vita); b) se la diagnosi fosse stata tempestiva e corretta, il paziente avrebbe avuto delle chance di vivere per più tempo (perdita di chance di maggiore sopravvivenza); c) se la diagnosi fosse stata tempestiva e corretta, il paziente avrebbe avuto delle chance di trovarsi in condizioni di salute migliori (danno da perdita di chance di salute; cfr. Cass. Civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195).

c. Il rapporto medico-paziente

Per quanto riguarda il rapporto tra medico libero professionista che presta la sua attività al di fuori di strutture sanitarie pubbliche o private organizzate e paziente, rientrano in tale genus tutti quei medici che offrono i loro servizi nel proprio studio privato (oculisti, dentisti, ginecologi, ecc.). Il rapporto che si instaura, in questo caso, è di natura contrattuale e, più specificamente, tale contratto è di prestazione professionale.
Per ciò che attiene al rapporto medico (dipendente ospedaliero o di struttura privata) e paziente, si sono succedute posizioni apertamente contrastanti che hanno riconosciuto, a tale rapporto (e, quindi, alla consequenziale responsabilità), una natura ora contrattuale, ora extracontrattuale.
L’ultimo approdo cui sono giunte dottrina e giurisprudenza afferma la tesi della responsabilità contrattuale da cd. contatto sociale: a questo proposito, la giurisprudenza più recente ha precisato che: «l’obbligazione nascente dal contatto sociale non ha ad oggetto “la protezione” del paziente, bensì una prestazione che si modella su quella del contratto d’opera professionale, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad esso ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati tutti gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto contatto, e in regione della prestazione medica concretamente da eseguirsi» (Cass. Civ., 13 aprile 2007, n. 8826).
Dal 2012 in poi, con l’entrata in vigore del cd. decreto Balduzzi (d.l. 13 settembre 2012, n. 158 recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”, convertito in legge 8 novembre 2012, n. 189, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 10 novembre 2012 ed entrata in vigore l’11 novembre 2012), alcuni giudici e alcuni autori sono tornati a rivedere le proprie posizioni, confutando la possibilità di riconoscere a tale rapporto, ancora, natura contrattuale.
Ciò in quanto il decreto Balduzzi, all’articolo 3, espressamente si riferisce all’articolo 2043 del codice civile” (Tribunale di Varese, 26 novembre 2012, n. 1406; Tribunale di Milano, sez. I, 17 luglio 2014, n. 9693).
Altra parte dei giudici, invece, ha sostenuto che «non sussistono ragioni per ritenere che la novella legislativa incida direttamente sull’attuale ricostruzione della responsabilità medica e che imponga un revirement giurisprudenziale» (Tribunale di Arezzo, 14 febbraio 2013; sulla stessa scia, si era già posta Cass. Civ., sez. III, n. 4040/2013 e, succesivamente, Tribunale Rovereto, 28 gennaio 2014 e Tribunale di Brindisi, 18 luglio 2014; da ultimo, Cass. Civ., sez. III, 17 aprile 2014, n. 8940).
Le diatribe sembrerebbero essere destinate a svanire, alla luce della legge Gelli-Bianco, la quale riconosce espressamente una responsabilità del medico di tipo extra-contrattuale, tranne nei casi in cui vi sia un effettivo contratto stipulato tra sanitario e paziente.

d. L’accertamento della responsabilità

Per quanto riguarda l’accertamento della responsabilità, essa sussisterà laddove saranno presenti gli elementi oggettivi e soggettivi atti a configurarla.
Il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che si colloca su di un piano strettamente oggettivo e che individua la relazione esterna tra il comportamento posto in essere e l’evento lesivo di cui ci si duole.
La Cassazione ha precisato che, solo una volta accertato il nesso di causalità è possibile passare alla valutazione dell’elemento soggettivo della colpa, il quale si configura quale limite alla oggettiva predicabilità della accertata responsabilità.
In particolare, colui che agisce per il risarcimento del danno è tenuto a provare un doppio nesso di causalità: uno, tra la condotta del debitore-danneggiante e l’evento (inteso come lesione in sé della posizione giuridica tutelata, cd. causalità materiale); l’altro, tra l’evento e le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate (i c.d. danni-conseguenza, cd. causalità giuridica).
Per l’accertamento del nesso di causalità giuridica il principio cui si deve far riferimento è quello, ai sensi dell’art. 1223 c.c., del criterio della c.d. regolarità causale. Sul versante dell’accertamento del nesso causalità materiale, invece, vi è un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
In questa sede, basti evidenziare che, alla luce della recente giurisprudenza, in tema di responsabilità medica, nel sottosistema civilistico, il nesso di causalità materiale, la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale, ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla certezza, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio del “più probabile che non” (Cassazione Civile, sez. III, 17 ottobre 2013, n. 23575, criterio già espresso dalle S.U. civili nella sentenza n. 5777 dell’11 gennaio 2008 e ribadito da Cass. Civ., 26 marzo 2010, n. 7352 oltre che, di recente, da Cass. Civ., sez. III, 15 dicembre 2011, n. 27000 e da Cass. Civ., sez. III, 20 aprile 2012, n. 6275).
Laddove la condotta sia omissiva, è configurabile il nesso causale tra il comportamento e il pregiudizio subito dal paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi (Cass. Civ., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10743; Cass. Civ., sez. III, 17 gennaio 2008, n. 867).

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, è difficile che in ambito medico si ravvisi una condotta dolosa, giacché questo vorrebbe dire ravvisare una volontà cosciente del medico di arrecare un danno al paziente. Maggiori riferimenti si ravvisano, in giurisprudenza, invece, in relazione all’elemento psicologico della colpa.
La colpa è elemento soggettivo della fattispecie illecita: essa è la misura dell’avvedutezza dell’agente nel porre in essere un comportamento.
La diligenza esigibile dal medico è quella di cui al secondo comma dell’art. 1176 c.c., riferita a quella media, più ampia di quella generica del buon padre di famiglia.
Si tratta della cd. diligenza determinativa la cui espressione è, innanzitutto, la perizia, intesa come conoscenza e applicazione di quel complesso di regole tecniche proprie della categoria professionale d'appartenenza (leges artis, di natura cautelare) finalizzate a circoscrivere, oltre all’ambito del cd. rischio consentito, anche quello di liceità dell’intervento.
La colpa medica dovuta a imperizia (cd. professionale o speciale) si configura, perciò, in tutte le ipotesi di involontaria inosservanza e/o violazione, da parte del sanitario, delle specifiche regole cautelari di condotta proprie dell’agente modello del settore specialistico di riferimento.
La colpa medica si qualifica quale colpa generica, invece, nell'ipotesi di violazione dei generali doveri di diligenza e prudenza comuni a qualsiasi ramo della professione medica.
Allorché la colpa professionale sia addebitata all’imperizia, si deve ritenere generalmente valido il principio stabilito dall’art. 2236 c.c. secondo il quale, se la prestazione indica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non nei casi di dolo o colpa grave.
A proposito del dolo, nulla quaestio; quanto alla colpa grave, essa si ha nel caso di totale difformità del metodo o della tecnica scelti dalle conoscenze acquisite nella scienza e nella pratica mediche.

In relazione all’onere della prova, l’orientamento precedente muoveva dalla considerazione che l’obbligazione del sanitario, in quanto professionale, fosse una cd. obbligazione di mezzi, con conseguente applicazione di un differente regime probatorio rispetto a quello ordinario, astrattamente applicabile, stante la natura contrattuale della responsabilità, previsto dall’art. 1218 c.c. (riferibile, secondo tale tesi, alle sole obbligazioni di risultato).
In definitiva, nel caso di obbligazioni di mezzi come quelle de qua, il creditore era tenuto a provare, in tale prospettiva, oltre al titolo e alla scadenza per il suo adempimento, se previsto, anche l’inesatto adempimento (quindi, l'assenza di diligenza).
Tale onere subiva, tuttavia, un temperamento nel caso di interventi operatori di routine o comunque di non difficile esecuzione, ai quali fosse conseguito un risultato peggiorativo delle condizioni finali del paziente: in tali casi, infatti, la Cassazione affermava che «la dimostrazione da parte del paziente dell’aggravamento della sua situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione, spettando all’obbligato fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile» (Cass. Civ., sez. III, 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. Civ., n. 6220/1988; Cass. Civ., n. 3492/2002).
I risultati sopra riassunti sono stati riletti dalla giurisprudenza più recente, soprattutto alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001: applicando i principi di tale pronuncia alla responsabilità professionale del medico, la Cassazione ha inaugurato un nuovo orientamento, secondo il quale il paziente che agisce in giudizio deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento (Cass. Civ., n.10297/2004 e, da ultimo, Cass. Civ., n.9085/2006, oltre che Cass. Civ., sez. III, 14 febbraio 2008, n. 3520).
Più precisamente, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto, l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, allegando l’inadempimento del debitore astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato (Cass. Civ., sez. III, 26 gennaio 2010, n. 1538). Resta a carico del sanitario, invece, la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (Cass. Civ., sez. III, 12 settembre 2013, n. 20904).
La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, così, non rileva più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata esclusivamente per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa: resta comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà (Cass. Civ., n. 10297/2004), con la precisazione che la prova cui quest’ultimo è tenuto non va intesa come prova negativa, ma come prova positiva del fatto contrario.
Simili conclusioni riflettono il progressivo superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato: la giurisprudenza, più nel dettaglio, ha superato la dicotomia, osservando che, nella misura in cui si riconosce l’obbligo, in capo al professionista, di rendere note al paziente le possibilità di conseguimento dell’esito auspicato, si imputa al contenuto della prestazione anche il risultato ragionevolmente prevedibile.
Resta da precisare che l’allegazione del creditore, di cui s’è detto supra, non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato (e, cioè, astrattamente efficiente alla produzione del danno; Cass. Civ., S.U., n. 577/2008 e, di recente, Cass. Civ., sez. III, 24 ottobre 2013, n. 24109).
Per quanto attiene al nesso causale, rimane fermo l’assunto secondo cui sul creditore-paziente (e sui suoi eredi, in caso di morte) incomba la prova del nesso di causalità giuridica tra l’evento dannoso e i danni che ne sono scaturiti ex art. 1223 cc.
Dubbi, invece, si sono palesati riguardo al riparto dell’onere della prova avente ad oggetto il nesso di causalità cd. materiale. Ci si è domandati, cioè, se la prova di questa causalità venga assorbita dal regime probatorio dell’errore terapeutico, oppure assuma una rilevanza concettualmente autonoma quale elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria.
Le Sezioni Unite, intervenute nel 2008, affermando il definitivo tramonto della dicotomia tra obbligazioni di mezzi e obbligazione di risultato, hanno valorizzato l’autonomia della causalità civile rispetto alla causalità penale.
Stando a questa decisione, il creditore dovrà allegare un inadempimento cd. qualificato, astrattamente efficiente alla produzione del danno; competerà al debitore, poi, però, dimostrare che tale inadempimento non c’è stato, o non è stato causa del danno.
La giurisprudenza successiva, invero, non ha seguito tale statuizione: essa ha affermato che il nesso di causalità è elemento costitutivo della domanda risarcitoria e, come tale, deve essere provato secondo la regola di cui all’art.2697 c.c. Il positivo accertamento del nesso di causalità, cioè, deve formare oggetto di prova da parte del danneggiato-paziente (Cass. Civ., 11 maggio 2009, n. 10743), il quale dovrà dimostrare che l’operato del medico si inserisce nel contesto di una serie causale che ha comportato l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di nuova patologia (Cass. Civ., sez. III, 12 settembre 2013, n. 20904).
Ovviament,e il tema dell’onere della prova deve essere oggi rivisto, alla luce dellalegge Gelli-Bianco, posto che, nel caso di responsabilità del medico extracontrattuale, varranno le regole ad essa relative e in capo al paziente sussisterà quindi l’onere di provare titolo, nesso causale (interamente) ed elemento soggettivo.

e. Responsabilità dell’équipe
Infine, occorre precisare che la maggior parte degli interventi sanitari viene effettuata in équipe.
Il buon andamento della prestazione medica, quindi, è costituito dalla somma delle singole attività. Se una o più delle figure professionali impegnate nell’intervento commettono degli errori, e si verifica il danno, allora si deve valutare attentamente su chi ricada l’obbligo risarcitorio, considerato che non tutti i singoli partecipanti hanno concorso alla causazione del pregiudizio.
La dottrina prevalente ha stabilito nel tempo che qualora la condotta posta in essere dal singolo sanitario si sovrapponga a quella di altri soggetti, il precetto concreto di diligenza a cui attenersi nel caso concreto dovrà fare riferimento al c.d. principio dell’affidamento, in base al quale ogni soggetto non dovrà ritenersi obbligato a delineare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, atteso che potrà sempre fare affidamento, appunto, sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell’osservanza delle regole di diligenza proprie.
Nel campo dell’attività medica d’equipe tuttavia, il principio dell’affidamento trova alcuni precisi limiti. Detti limiti sono stati individuati, da un lato, nella posizione apicale e gerarchicamente sovraordinata di un sanitario - il c.d. capo equipe - rispetto agli altri, che fa nascere nei suoi confronti un dovere di sorveglianza sull’operato dei suoi collaboratori e, dall’altro, nella sussistenza di un positivo stato di fatto, capace di invalidare l’aspettativa di una condotta altrui corrispondente ai doveri di diligenza, prudenza e perizia, come nei casi in cui, a cagione dell’altrui comportamento colposo, sia già in atto una situazione pericolosa per un paziente, oppure vi sia ragionevole motivo di ritenere che essa possa realizzarsi, in ragione delle reali contingenze di fatto che siano riconoscibili o possano essere percepite dall’agente (come ad esempio le condizioni di salute non buone di un collega, la sua età giovane, la sua inesperienza o la distrazione). In tali casi, le limitazioni al dovere di diligenza connesse al principio dell’affidamento divengono non più vigenti: a carico di ogni medico che avrà la cura del paziente si avrà non solo l’obbligo di espletare le proprie mansioni specifiche con diligenza e perizia, ma anche quello di impedire e vanificare l’altrui condotta contraria alle leges artis proprie (Trib. Milano 9 marzo 2009, sez. V, n. 3176).

Ai sensi dell’art. 8 della nuova legge Gelli, rubricato “Tentativo obbligatorio di conciliazione”, chiunque intenda esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedure civile, dinanzi al giudice competente.
La stessa norma della legge espressamente stabilisce, al comma 2, che la presentazione del ricorso suddetto costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento. Allo stesso tempo, esso precisa che è comunque fatta salva la possibilità di esperire, in alternativa, il procedimento di mediazione (ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28; in tali casi, non trova però applicazione l’articolo 3 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162).
Appare sensato l'utilizzo del ricorso per accertamento tecnico preventivo quale preferenziale occasione per stimolare la conciliazione, data la fallimentare esperienza del tentativo di mediazione. La scelta, anche in termini di risparmio di tempo, è positiva perché non sottrae al controllo del giudice il delicato momento dell'accertamento della responsabilità e prelude all'applicazione, anch'essa già sperimentata, del ricorso all'art. 702-bis c.p.c. quale corsia preferenziale per incardinare il processo dopo l'esperimento vano del'A.t.p.
Ai sensi dell’articolo 12 della nuova legge (che si applica a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto del Ministro dello sviluppo economico con il quale saranno determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie), il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa all’esercente la professione sanitaria.
La legge Gelli, infatti, espressamente stabilisce che
a) ai sensi dell’art. 10, ciascun esercente la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private, deve stipulare, con oneri a proprio carico, un’adeguata polizza di assicurazione per colpa grave;
b) l’esercente la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una struttura o che presti la sua opera all’interno della stessa in regime libero-professionale, ovvero che si avvalga della stessa nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente, ha l’obbligo di cui all’articolo comma , lettera e), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, all’articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 012, n. 137, e all’articolo 3, comma 2, del decreto legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189.
L’impresa di assicurazione ha, ovviamente, poi, diritto di rivalsa sull’assicurato; nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione, l’esercente la professione sanitaria è litisconsorte necessario e l’impresa di assicurazione, l’esercente la professione sanitaria e il danneggiato hanno diritto di accesso alla documentazione della struttura relativa ai fatti dedotti in ogni fase della trattazione del sinistro.
L’azione diretta dal danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione è assoggettata al medesimo termine di prescrizione cui è assoggettata quella avverso l’esercente la professione sanitaria (che, quindi, se non v’è contratto effettivo, è di 5 anni).
L’articolo 15 della nuova legge, infine, stabilisce che, nei procedimenti civili aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’autorità giudiziaria debba affidare l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare, scelti tra gli iscritti negli albi dei consulenti (in cui devono essere indicate e documentate le specializzazioni degli iscritti esperti in medicina, ex articolo 15, comma 2, e che vanno aggiornati con cadenza almeno quinquennale) non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi.
Alla luce della legge Gelli-Bianco, il giudice “anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta del sanitario rispettosa delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida. In altre parole, il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche funziona come ‘attenuante’ della responsabilità civile, dando vita ad una situazione abbastanza anomala: tradizionalmente, infatti, la colpa rileva sul piano civilistico ai fine dell’an debeatur e non del quantum, ossia, rileva come elemento costitutivo della responsabilità e del diritto al risarcimento dei danni, non come criterio per determinare la somma risarcibile.
La stessa legge, inoltre, specifica che lo stesso magistrato dovrà anche tener conto dell’articolo 590-sexies c.p., introdotto dall’art. 6 della legge (e, quindi, della eventuale nuova responsabilità penale colposa del sanitario per morte o lesioni personali del paziente, introdotta dalla riforma).

2. La responsabilità della struttura sanitaria (N. P.)
a. La responsabilità per condotta dell’ausiliario

La struttura sanitaria risponde dei danni che il medico, con la sua prestazione curativa, abbia arrecato al paziente. Il paziente leso potrà quindi chiedere alla struttura il risarcimento dei danni patiti a causa di un errore lesivo posto in essere dal medico che in essa ha, a vario titolo, operato.
La legge Gelli, al suo articolo 7 (rubricato Responsabilità della struttura e dell’esercente la professione sanitaria per inadempimento della prestazione sanitaria e già citato a proposito della responsabilità medica), conferma che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose.
Questa regola, ai sensi del comma 2, si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica, ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale, nonché attraverso la telemedicina.
Il danno è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste (comma 4).
Le strutture sanitarie e sociosanitarie e le imprese di assicurazione, ai sensi dell’art. 13 della legge Gelli, devono comunicare all’esercente la professione sanitaria l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo del giudizio.
Esse, poi, entro dieci giorni, devono comunicare all’esercente la professione sanitaria, mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento, l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, con invito a prendervi parte. L’omissione, la tardività o l’incompletezza delle comunicazioni di cui s’è detto, preclude l’ammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa.
Ai sensi dell’art. 8 rubricato (Tentativo obbligatorio di conciliazione), chi intenda esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente.
Come rilevato dalla giurisprudenza, la struttura sanitaria può approfittare della transazione tra danneggiato e medico, secondo le regole previste per le obbligazioni solidali; sennonché, ciò non può avvenire quando tra il danneggiato e il medico sia stata raggiunta una transazione parziale, eventualmente accompagnata da un pactum de non petendo nei confronti del professionista (Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2015, n. 19541).
Ovviamente, però, nell’eventualità in cui sia stata instaurata una causa in cui la domanda risarcitoria atteneva soltanto l’operato del medico e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la definizione della lite tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere per intercorsa transazione tra danneggiato e medico, impedisce la prosecuzione dell’azione nei confronti della struttura sanitaria, dal momento che questa è convenuta in giudizio esclusivamente per fatto altrui (Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2015, n. 15860).

b. La responsabilità per inadempimento del contratto di spedalità
Ben può succedere, però, che sussista una responsabilità della struttura sanitaria anche laddove manchi una responsabilità del personale sanitario da essa dipendente: ad esempio, qualora vi siano deficienze organizzative o di dotazioni tecniche, ovvero, un malfunzionamento delle apparecchiature, o, ancora, una inappropriata turnazione del personale.
In tutti questi casi si ravvisa una responsabilità della struttura diretta per danno da disorganizzazione, consistente nella violazione degli obblighi accessori, connessi alla prestazione principale, di diligente predisposizione ed organizzazione del personale e degli strumenti necessari all’esatto adempimento della prestazione sanitaria, ex artt. 1175 cc. e 1375 cc.
In dottrina si è ritenuto correttamente di individuare una serie di comportamenti che garantiscono quegli indefettibili requisiti minimi per considerare assolti gli obblighi di buona organizzazione.
Così, è necessario che vi sia sempre un medico di guardia e sufficiente personale infermieristico qualificato in grado di svolgere in concreto e con perizia i compiti richiesti; tanto che è stata riconosciuta la responsabilità dell’ospedale per aver ritardato il parto cesareo per non avere assicurato la presenza continua di un anestesista rianimatore ed un più efficiente reparto ostetrico.
Ed ancora, ci deve essere una razionale ed adeguata dislocazione dei vari servizi, cosicché le urgenze possano essere fronteggiate con le necessaria tempestività consentendo il rapido intervento degli specialisti ed il pronto trasferimento del paziente nel reparto più idoneo alla sua cura.
È pure necessario che i locali siano idonei per ampiezza e sotto il profilo igienico alle funzioni che vi si svolgono; inoltre, è censurabile la mancanza di moderne apparecchiature terapeutiche e diagnostiche e la loro non perfetta manutenzione.
La struttura sanitaria sarà in ogni caso responsabile pure per i farmaci non idonei, sia per tipologia che per essere “superati” da altri più efficaci, dovendo somministrare i farmaci più efficaci e sicuri sul mercato e incombendo sulla stessa struttura e sui suoi sanitari un generico obbligo di aggiornamento professionale in ordine alle indicazioni terapeutiche e cliniche, comprensivo anche dei nuovi farmaci esistenti in commercio.
Tra gli obblighi strumentali ed accessori rispetto a quello principale che concerne la prestazione di cure, che gravano sulla struttura vi sono certamente anche quelli che concernono la corretta compilazione della cartella clinica e la sua conservazione.
La perdita, il danneggiamento o la distruzione della cartella è un evento dannoso, suscettibile di risarcimento a carico dell’ente responsabile del trattamento e dell’archiviazione dei dati
La responsabilità in caso di lacunosa formazione o di mancata conservazione della cartella clinica, si riconnette dunque all’obbligo di controllare la completezza e l’esattezza del suo contenuto, la cui violazione si configura come difetto di diligenza ex art. 1176 comma 2 c.c., da cui consegue la declaratoria di responsabilità della struttura per i danni subiti dal paziente
Anche la custodia e la protezione del paziente sono obblighi che gravano in capo alla struttura ospedaliera, sicché si configura una responsabilità per inadempimento nel caso in cui un neonato venga rapito dal nido, ovvero nel caso in cui il paziente contragga un infezione (contagio da batterio nosocomiale, Tribunale di Roma, sez. XIII, 22 giugno 2015).
Inoltre, è opportuno specificare che la giurisprudenza, di recente, ha evidenziato che oltre ad osservare le normative in tema di dotazione e struttura delle organizzazioni di emergenza, la struttura deve tenere condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente ed in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, benché conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni più idonee a scongiurare l'impossibilità del salvataggio del leso (Cass. Civ., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 21090).
Infine, i giudici, in una decisione assai recente, hanno precisato che la transazione fatta dal creditore con il medico, responsabile in solido con la struttura, non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare (Cass. Civ., sez. III, 30 settembre 2015, n. 19541).

c. Il rapporto tra ospedale e paziente
Il rapporto che si instaura tra ospedale (pubblico) e paziente ha dato origine a diverse interpretazioni. Tuttavia, si ritiene ormai pacificamente che il rapporto tra ospedale e paziente abbia natura contrattuale, così come pure conferma la legge Gelli-Bianco sul punto. Tra i soggetti che entrano in contatto (struttura pubblica e paziente) non si ravvisa alcun rapporto di supremazia della P.A., mentre ciò che emerge è un rapporto paritetico di natura contrattuale.
In verità, accanto all’orientamento più tradizionale si è sviluppata un’altra linea di pensiero che, pur riconoscendo un vincolo di natura contrattuale, parla di un contratto atipico o innominato, al quale viene attribuito il nomen iuris di contratto di spedalità. In tale contratto, accanto alla prestazione principale − che è quella di assistenza medica − se ne ravvisano altre accessorie e strumentali a quella (ricovero, forniture di servizi infermieristici, ristorazione, prestazioni volte a garantire la sicurezza degli impianti e delle attrezzature nonché la sistemazione logistica, i turni di assistenza e vigilanza, la custodia del paziente) che allargano e completano gli obblighi contrattuali a carico dell’ospedale e contestualmente consentono all’utente una migliore tutela della sua posizione.
Considerate unitariamente, tali prestazioni finiscono con il riferirsi ad un generale concetto di buona organizzazione; e l’ente è responsabile ex art. 1218 c.c. sia dei danni riconducibili a carenze organizzative sia dei danni causati dai propri dipendenti (1228 cc).
Il legislatore ha introdotto la possibilità, per i medici dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale che abbiano scelto di prestare la loro attività professionale esclusivamente a favore delle strutture pubbliche, di esercitare anche un’attività definibile di tipo libero professionale all’interno della struttura di appartenenza (c.d. attività intramuraria).
La dottrina ritiene che le peculiari finalità avute di mira dal paziente che decida di avvalersi dell’attività in questione (e, dunque, soprattutto le garanzie di affidabilità che generalmente vengono riconosciute alle strutture pubbliche, per l’organizzazione di cui godono) rendono manifesto come non sembri potersi dubitare che, anche in questo caso, la struttura pubblica risponderà dei fatti dannosi eventualmente cagionati dai medici che sono suoi dipendenti e che, proprio perché tali, sono tenuti ad esercitare l’attività professionale nell’ambito (e, quindi, per definizione, in nome e per conto) dell’ente pubblico. Del resto, l’ospedale ricava un preciso utile imprenditoriale dalla prestazione, pur se definita libero professionale, realizzata al suo interno, in quanto al paziente è chiesta una controprestazione in denaro ed il medico riceve il pagamento per l’attività svolta addirittura in busta paga, confermandosi, così, come egli continui ad agire nella sua qualità di dipendente dell’amministrazione.
Pure nel caso in cui l’attività si svolga in studi privati, sussiste ugualmente la responsabilità della struttura ospedaliera. Anche in questo caso, infatti, l’ospedale conseguirà un suo utile imprenditoriale.

d. Il rapporto tra struttura privata e paziente.
Per quanto riguarda il rapporto tra struttura privata e paziente, esso può nascere direttamente tra la struttura ed il paziente, oppure, può trovare mediazione nella figura del medico che non sia dipendente della struttura, ma svolga in questa la sua opera professionale.
Sicuramente, la responsabilità della struttura si afferma nel caso in cui il medico che ha apprestato le cure sia suo dipendente.
Qualche problema, invece, ha creato l’ipotesi suddetta di medico non dipendente che svolga nella casa di cura la sua attività: non parrebbe instaurarsi alcun rapporto tra struttura e paziente per la prestazione delle cure mediche; e, dunque, la responsabilità della casa di cura sembrerebbe essere del tutto esclusa nell’ipotesi in cui i danni fossero provocati dal medico non dipendente.
Tuttavia, la giurisprudenza ha superato i dubbi che apparentemente si ponevano circa la responsabilità o meno di quest’ultima, affermando che l’attività che un chirurgo, libero professionista, svolge presso una casa di cura privata, quanto meno in virtù di un non occasionale rapporto d’esecuzione d’opere, comporta, per sua natura, un vincolo di dipendenza, sorveglianza e vigilanza tra la casa di cura committente ed il chirurgo preposto; ne consegue che, in caso di danni derivanti da un intervento chirurgico erroneamente eseguito per imperizia dell’operatore, oltre alla responsabilità di costui verso il paziente per il fatto illecito (ex art. 2043 c.c.) sussiste, con vincolo solidale, la responsabilità contrattuale (ex art. 1218 e 1228 c.c.) ed extracontrattuale (ex art. 2049
c.c.) della predetta casa di cura. (Tribunale di Roma, 28 giugno 1982, Temi Romana, 1982, 601).
Da ultimo, la giurisprudenza di merito, ritenendo inappagante il richiamo all’art. 1228 c.c., potendo mancare il potere di vigilanza della casa di cura sul medico, ha elaborato una nuova soluzione per riconoscere la responsabilità della struttura in via solidale con quella del medico, ed ha riconosciuto negli obblighi assunti da tali soggetti nei confronti del paziente una obbligazione plurisoggettiva ad attuazione congiunta.
Nel caso in cui venga effettuata presso una casa di cura privata convenzionata la prestazione in regime intramurario, le responsabilità, in caso di danno causato al paziente da dipendenti dell’ospedale pubblico, sarà riconducibile in via solidale sia all’ospedale che alla casa di cura.
Infatti, come precisato dalla giurisprudenza, la struttura prescelta solo a prima resta sullo sfondo di un rapporto che, proprio in dipendenza del suo coinvolgimento, acquista certamente caratteri di peculiare complessità, sembrando, in realtà, la funzione della struttura stessa destinata a giocare un ruolo tutt’altro che marginale nel concreto svolgersi e realizzarsi della prestazione professionale intramuraria: ciò per la relativa influenza sull’an delle determinazioni del paziente, dato l’ingegnarsi, in quest’ultimo, di un affidamento nel coinvolgimento, appunto, della casa di cura. Affidamento, con la conseguente responsabilità concorrente della stessa nei confronti del paziente (e salva, poi, ogni eventuale ragione di rivalsa, nei reciproci rapporti, tra ente ospedaliero pubblico e struttura privata), che nasce, ancora una volta, dall’intuitiva convinzione di avvalersi ed entrare in contatto non con una mera struttura alberghiera, bensì con qualcosa di profondamente diverso, quale è, sicuramente una struttura sanitaria.

3. La responsabilità amministrativa in ambito sanitario (M.S.)
In virtù dell’art. 47 della l. n. 833 del 1978 e del d.P.R. di attuazione, n. 761 del 1979, al personale sanitario si applicano le previsioni di carattere generale che governano il pubblico impiego in materia di responsabilità amministrativa.
I presupposti della responsabilità amministrativa, in ambito sanitario sono: (i) la verificazione di un danno per l’erario che, nel caso di SSN, è subito dall’Azienda Sanitaria Locale, da un’Azienda Ospedaliera o da altra struttura che eroga prestazioni sanitarie per conto del SSN e che abbia personalità giuridica di diritto pubblico; (ii) la sussistenza di un rapporto di servizio fra i sanitari e l’Amministrazione che ha subìto il danno; (iii) l’elemento psicologico del dolo o della colpa grave del sanitario; (iv) il nesso causale tra le condotte dei sanitari e l’evento dannoso.
Il danno può essere diretto, se è cagionato direttamente alla pubblica amministrazione, oppure indiretto, nel caso in cui l’Amministrazione debba risarcire il terzo dal danno cagionato dal dipendente e, pertanto, si rivale agendo nei confronti di quest’ultimo (ad esempio nei casi di malpractice).
L’esistenza di un rapporto di servizio è stata ravvisata dalla giurisprudenza in vari casi, tra cui quello del sanitario convenzionato con il S.S.N. per l’ingiusta sottrazione di risorse in danno della Aziende sanitarie per prescrizione di farmaci al di fuori dei presupposti di legge (Sez. II, 30 maggio 1991 n.209).
In particolare, l’esistenza di un rapporto di servizio è stata associata ai seguenti adempimenti: l’identificazione degli assistiti e l'accertamento del diritto degli stessi alle prestazioni sanitarie; il rilascio di certificazioni sanitarie; la compilazione di prescrizioni farmaceutiche (ex multis, Cass., Sez. Un., 13 novembre 1996 n. 9957; Cass. civ., Sez. un., 18 dicembre 1985, n. 6422; Id., 21 dicembre 1999, n. 922).
Un altro caso in cui la giurisprudenza ha ravvisato l’esistenza id un rapporto di servizio è quello dei Componenti delle Commissioni sanitarie per gli invalidi civili (Cass., Sez. Un., 4 luglio 2002 n.9693), che rispondono per l’indebita indebita corresponsione di provvidenze economiche a tale titolo ( Sez. Reg. Basilicata, 6 maggio 1999 n.119).
Con riferimento all’elemento psicologico, l’articolo 9 della legge 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché’ in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie) disciplina “l’azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria”.
Tale disposizione normativa prevede che l’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria possa essere esercitata solo nelle ipotesi di dolo o colpa grave.
La giurisprudenza ha ritenuto di circoscrivere la responsabilità amministrativa del medico ai casi di negligenza, imperizia, imprudenza gravi riconducibili alla inosservanza delle metodiche terapeutiche dettate dalla scienza medica secondo il livello raggiunto dalla ricerca, tenendo conto del comportamento del medico conforme alle regole della deontologia professionale che postulano il suo scrupoloso impegno nell’uso di tutte le tecniche dettate dalla scienza clinica e di ogni altro accorgimento suggerito dalla comune esperienza.
La colpa grave, in particolare nell’ipotesi di violazione delle buone pratiche mediche e delle linee guida deve comunque essere dimostrata da parte della procura contabile poiché: “la sola condotta difforme alle linee guida che la pubblica accusa indica come violate o non rispettate appieno, non è sufficiente per sostenere che vi sia nesso causale tra il loro mancato rispetto e l’evento dannoso. Tale dimostrazione, invece, deve essere calata nel caso concreto di cui si discute, ove la semplice difformità tra linee guida allegate in atto di citazione e la condotta tenuta dal medico o dai suoi collaboratori non basta a ritenere sussistente un valido nesso causale ma può, al più, ritenersi un indice rivelatore che va corroborato con altre risultanze di fatto da verificarsi nell’evento storico che ha determinato la fattispecie dannosa” (Corte Conti Emilia Romagna, sez. giur. 21/06/2017, n. 145; Id., Emilia-Romagna, sez. giurisd., 11/05/2017, n. 100).
È esclusa la colpa grave del medico, oltre che nei casi di problemi diagnostici e terapeutici di difficile soluzione o in presenza di quadro patologico complesso, ovvero quando il medico si trovi nella necessità di agire in una situazione di emergenza o di urgenza, in tutte quelle ipotesi in cui la sua scelta appaia comunque ragionevole, avuto riguardo alle conoscenze scientifiche e alla prassi medica (Corte dei Conti, sez. reg.Trentino Alto Adige-Bolzano, 24 febbraio 2012, n. 1).
L’azione di responsabilità è disciplinata dal richiamato art. 9, l. n. 24/2017, il quale, al co. 5, stabilisce, in relazione alla quantificazione del danno alla finanza pubblica, il principio generale che regola i giudizi di responsabilità davanti alla Corte dei Conti, secondo cui in caso di condanna deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti, si applica anche ai giudizi di responsabilità amministrativa riguardanti l’esercente la professione sanitaria, prevedendo la riduzione della quantificazione del danno nel caso in cui si presentino “situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato”.
Il medesimo comma stabilisce altresì che, in caso di colpa grave, “l’importo della condanna per la responsabilità amministrativa e della surrogazione di cui all’art. 1916, primo comma, del codice civile, per singolo evento, non può superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo” e, inoltre, che “per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato, l'esercente la professione sanitaria, nell'ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori”.
Dunque, salvo le ipotesi di condotte poste in essere con dolo, per l’esercente la professione sanitaria, a differenza del pubblico dipendente o di colui che è ha una relazione di servizio con l’amministrazione, è riconosciuto dalla legge un limite in relazione al quantum della condanna al risarcimento del danno in sede di giudizio di responsabilità.
Il limite alla misura della rivalsa non si applica nei confronti degli esercenti la professione sanitaria che svolgono la propria attività al di fuori di una delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private o che prestino la propria opera all’interno della stessa in regime libero-professionale ovvero che si avvalgano della stessa nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente.
A titolo esemplificativo, si indicano alcune fattispecie di responsabilità amministrativa-contabile individuate dalla giurisprudenza: (1) la redazione, da parte di medici convenzionati con il SSN di impegnative incongrue, di eccessive prescrizioni agli assistiti (Corte dei Conti, sez. reg. Lombardia, 27 dicembre 2012, n. 474; Id., sez. reg. Lazio, 16 luglio 2013, n. 557); (2) il caso in cui i medici gettano nel cassonetto dei rifiuti i medicinali dispensati con spesa a carico del SSN, in quanto tale comportamento contrasta con gli obiettivi di risparmio (Corte dei Conti, sez. reg. Puglia, 23 giugno 2009, n. 492); (3) l’acquisto di beni da parte della struttura sanitaria, quali arredi o accessori con spese ritenute eccessive (Corte Conti Calabria, 21 maggio 2008, n. 419); (4) la mancata emissione di ricevute fiscali a fronte di prestazioni mediche rese in regime di attività intramoenia, in ragione del mancato introito per l’ente ospedaliero della quota dei compensi non fatturati (cfr. Corte dei Conti, sez. reg. Liguria, 2 agosto 2009, n. 375) ; (5) l’ottenere illecitamente, in qualità di medico di medicina generale convenzionato con il servizio sanitario, compensi per visite domiciliari, non effettuate, nei confronti di pazienti non ambulabili (CorTe dei Conti sez. giur. Puglia, 21 febbraio 2014, n. 701).

Nicola Posteraro - Martina Sinisi



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