In un famoso fumetto di qualche anno fa, gli scrittori Mark Millard e Brian Bendis immaginavano che il Governo americano, spaventato dall’uso incontrollato dei loro superpoteri, avesse imposto a tutti gli eroi mascherati del paese di registrarsi presso le autorità rinunciando alla loro identità segreta. Di fronte a questa richiesta, il mondo dei supereroi si è diviso in due fazioni, la prima capitanata da Iron Man, fiero sostenitore delle ragioni del Governo e della necessità di sacrificare la propria riservatezza sull’altare della sicurezza della nazione, la seconda guidata da Captain America, strenuo difensore del sogno americano e del diritto alla segretezza della propria persona e identità. L’epico duello tra i due supereroi immaginato da Millard e Bendis non fa che riproporre sulla carta lo scontro ideale e politico tra la necessità di difendere la nazione dagli attacchi del terrorismo internazionale e l’esigenza di tutelare la vita privata dei cittadini americani dal controllo invasivo dei servizi di intelligence in atto oggi negli Stati Uniti. In altri termini, il fumetto Civil War racconta bene il delicato intreccio tra security e privacy che, soprattutto a seguito degli attentati dell’11 settembre, condiziona la vita della democrazia americana e che può essere sintetizzato dalla domanda che Captain America rivolge ad Iron Man e al Governo americano nel corso di tutto il fumetto: fino a che punto è possibile comprimere i diritti dei cittadini per tutelare la sicurezza nazionale senza che ciò comprometta, definitivamente, quei valori di libertà e giustizia che l’America è nata per difendere? Negli Stati Uniti la risposta a questo quesito non può essere data una volta per tutte, ma è invece il frutto di un costante e faticoso equilibrio che tiene conto delle circostanze concrete, dei fatti, delle sfide che il sistema costituzionale è chiamato a affrontare. Si capisce pertanto perché ultimamente il dibattito sul rapporto tra privacy e security sia stato rilanciato con forza dal c.d. Datagate, ovvero dalle rivelazioni con cui, a partire dal giugno 2013, l’ex consulente della National Security Agency (NSA) Eric Snowden ha cominciato a denunciare l’esistenza di programmi segreti di sorveglianza e di intercettazione delle comunicazioni telefoniche e digitali interne ed esterne alla nazione americana. Nell’opinione pubblica internazionale particolare scalpore ha suscitato la predisposizione di programmi quali PRISM, o TEMPORA attraverso cui le agenzie di intelligence americane come l’NSA e l’FBI (ma anche la britannica GCHQ o la francese DGSE) hanno acquisito ed immagazzinato negli ultimi anni miliardi di informazioni digitali raccolte con la collaborazione delle principali aziende informatiche quali Apple, Google, Microsoft, e Facebook, o intercettate direttamente dai cavi sottomarini atlantici utilizzati per la trasmissione dei dati. Ma a livello interno, altrettanto clamore ha suscitato la notizia delle autorizzazioni concesse al Governo americano dalle Corti speciali americane al fine di ottenere dalle principali compagni telefoniche i registri e i tabulati degli ultimi otto anni contenenti i c.d. metadati telefonici dei loro clienti. Non appena pubblicata, la notizia ha sollevato molteplici proteste tra i cittadini, che si sono sentiti violati nella riservatezza delle loro comunicazioni; se infatti è vero che i metadati telefonici non riguardano il contenuto delle telefonate, ma solo informazioni digitali legate al momento, alla durata e al luogo delle comunicazioni, è altrettanto vero che molti sono i fatti sensibili riguardanti la vita dei cittadini che possono essere ricavate dallo studio dei metadati. E così, in America, le rivelazioni di Snowden hanno presto spinto cittadini singoli o associati a ricorrere presso i giudici federali e statali per far valere il loro diritto alla privacy e alla riservatezza sancito dal Quarto emendamento della Costituzione. Non sempre, in realtà, la risposta dei giudici a tali pretese è stata univoca, perché i casi loro sottoposti toccano il delicatissimo equilibrio esistente tra il diritto alla privacy dei cittadini da un lato, e l’esigenza governativa di proteggere i confini nazionali dall’altro. Per questo le Corti americane hanno proposto interpretazioni della Costituzione tra loro radicalmente diverse, arrivando recentemente a dichiarare l’incostituzionalità del programma governativo di raccolta dei metadati telefonici nel distretto di Columbia (Klayman v. Obama) ma ammettendone la piena legittimità poche settimane più tardi in quello di New York (ACLU v. Clapper). Le differenti soluzioni a cui sono giunti i due giudici federali testimoniano la delicatezza del problema, e le difficoltà interpretative legate alla applicazione di una clausola costituzionale (il Quarto emendamento) il cui ambito è stato fortemente condizionato dall’avvento dell’era digitale: come vedremo, infatti, l’inadeguatezza della giurisprudenza in materia rende complicato definire precisamente l’ambito di applicazione del diritto alla privacy nei casi in esame, e non è impossibile che – anche in ragione delle opposte interpretazioni recentemente fornite dai giudici federali – la Corte suprema sarà chiamata presto a pronunciarsi. I giudici americani, pertanto, si sono trovati di fronte al quesito efficacemente sintetizzato nel fumetto di Millar e Bendis: fino a che punto è possibile per un ordinamento democratico sacrificare sull’altare della sicurezza nazionale quelle libertà che esso è nato per garantire e difendere?... (segue)
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