
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, del 1° luglio 2014 (S.A.S. contro Francia, ricorso n. 43835/11), offre interessanti spunti di riflessione sulla dibattuta e sensibile tematica dei rapporti tra diritto e religione, con particolare riguardo alla questione dei simboli religiosi negli spazi pubblici. La pronuncia, al di là del caso deciso, induce ad interrogarsi sui limiti di compatibilità di alcuni simboli religiosi, quali il burqa e il niqab, con i principi fondamentali posti alla base delle società democratiche libere ed aperte.
Come sottolineano gli stessi giudici di Strasburgo, la questione del velo islamico integrale è diventata di attualità in Francia in tempi piuttosto recenti: secondo l’indagine condotta dalla Commissione parlamentare francese istituita nel 2009, nessuna donna indossava veli integrali fino all’anno 2000, mentre nel 2009 si registravano in Francia (e nei territori francesi d’oltre mare) circa 1.900 donne che facevano uso di questi capi di abbigliamento. Peraltro, secondo il report finale della Commissione, la pratica di indossare il velo islamico risalirebbe ad un’epoca precedente l’avvento dell’Islam e non avrebbe il carattere di un precetto religioso, trattandosi invece di un modo di affermazione radicale della propria identità, a volte derivante anche dall’azione di movimenti integralisti ed estremisti. Il rapporto conclusivo ravvisava – oltre che una lesione al principio della laicità – il contrasto del velo integrale con i valori repubblicani della liberté, égalité e fraternité, in quanto simbolo di sottomissione della donna (violazione della libertà) e quindi di lesione della parità di genere e della pari dignità umana (violazione dell’uguaglianza), nonché negazione dei principi del vivere comune (violazione della fraternità).
Nel suggerire le linee d’azione per contrastare questa pratica, proteggere le donne e riflettere sui processi di integrazione sempre più complicati dal fattore religioso, nel report si sottolineava – tuttavia – la mancanza di unanimità sull’opportunità di approvare una legge generale che vietasse di indossare il velo integrale negli spazi pubblici. Sulla scorta dell’indagine condotta dalla Commissione parlamentare, l’Assemblea nazionale, l’11 maggio 2010, approvava all’unanimità una risoluzione secondo cui – tra l’altro – le pratiche religiose radicali (come l’uso del velo integrale), che possano mettere in condizione di inferiorità (minore dignità, minore libertà, mancanza di uguaglianza) la donna rispetto all’uomo, sono incompatibili con i valori della Repubblica e che l’esercizio della libertà di espressione, di opinione o di fede religiosa non può essere rivendicata da nessuno al fine di sottrarsi al rispetto delle regole comuni in contrasto con i valori, i diritti e i doveri che stanno alla base della società
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