
In occasione della Giornata della memoria, queste brevi riflessioni intendono evidenziare la connessione fra la politica di privazione della cittadinanza a persone appartenenti a gruppi etnici o religiosi, lo status di apolidia e la difficoltà di una protezione internazionale dopo i trasferimenti coercitivi di massa o a seguito di persecuzioni. La progressiva privazione della cittadinanza agli ebrei tedeschi da parte della Germania, sino all’annullamento di qualsiasi diritto civile ed alla deportazione nei campi di concentramento, trova drammatico riscontro nell’indifferenza e nell’indisponibilità degli Stati terzi ad offrire un visto di ingresso e un rifugio in un luogo qualsiasi idoneo ad offrire una alternativa di vita. La drammatica situazione delle persone coinvolte merita di essere ricordata e inserita nel quadro giuridico generale che riguardò fra le due guerre mondiali anche altri gruppi etnici. Molte le similitudini e paralleli i destini degli ebrei italiani privati progressivamente di ogni diritto e deportati in Germania. Dall’Olocausto e dalla tragedia della II guerra mondiale ha preso origine il regime attuale delle convenzioni sui rifugiati e la riduzione della apolidia. Dopo la I guerra mondiale, si manifestò la necessità di trovare una soluzione al fenomeno di massa degli “apatridi” (Heimatlos) che erano stati espulsi dal Paese di origine o si erano rifugiati in altri Paesi. I Trattati di pace che sancirono i confini dei nuovi Stati, sorti dalla dissoluzione dei grandi imperi ottocenteschi, determinarono l’abbandono del proprio Stato di origine da parte di circa nove milioni di persone, quale conseguenza della persecuzione delle minoranze etniche e religiose. La privazione della cittadinanza di individui appartenenti a gruppi etnici, religiosi e di opposizione politica divenne un fenomeno di massa. Gli Stati nazionali emergenti diventarono presto l’espressione di un solo popolo, mentre le minoranze compresero che, senza un proprio governo, avrebbero difficilmente potuto godere dei diritti individuali. Era evidente che l’esistenza di diversità etniche rappresentava di per sé una minaccia per l’identità dello Stato-nazione o, diversamente detto, un pericolo per la sovranità nazionale. Negli anni tra le due guerre molti paesi europei decretarono la privazione della cittadinanza per gli individui che l’avevano acquisita in precedenza (de-naturalizzazione): la Francia nei confronti dei nativi di paesi nemici; il Portogallo per coloro che avevano il padre tedesco; il Belgio per la commissione di atti antinazionali; la Turchia e l’Egitto. Tuttavia, anche nel II dopo-guerra, altri casi simili ma a “minoranze rovesciate” riguardarono i cittadini di origine tedesca in alcuni Paesi dell’Est europeo (Cecoslovacchia per i cittadini di origine tedesca o ungherese, Polonia e Iugoslavia per i cittadini di origine tedesca). Se a partire dalla Rivoluzione francese, i diritti dei cittadini erano stati tutelati nei confronti dello Stato di appartenenza, nella fase post-bellica la tutela dei senza-patria poteva essere efficace solo con un’azione a livello internazionale. Pertanto, il dibattito e la ricerca di possibili soluzioni si spostò in seno alla Società delle Nazioni. In mancanza di un adeguato regime di protezione internazionale dei diritti umani, la privazione della cittadinanza rappresentava non solo un’offesa al principio di umanità ma anche un pericolo per ogni forma di cooperazione internazionale. A tale livello, furono raggiunti blandi rimedi e accordi “caso per caso” ma si stabilirono, comunque, documenti-standard di identità e di viaggio per alcune specifiche nazionalità… (segue)
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