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FOCUS - Human rights N. 3 - 16/09/2013

 «In nome della Legge Penale Italiana» Giudici d’Europa, Custodi del diritto penale

Molteplici e discordanti, sincroniche e diacroniche, le correnti interpretative che fanno il quadro “vivente” delle norme penali reclamano da tempo la ri-definizione di un equilibrio tra il momento della produzione legislativa e quello della applicazione giurisprudenziale, che segna l’esistenza giuridica della disposizione “dichiarandone” un certo significato normativo. Con l’espressione diritto vivente si intende infatti il diritto interpretato e applicato dai giudici, il diritto che “vive” in una interpretazione giurisprudenziale consolidata o costante, insomma il diritto che la giurisprudenza determina e quindi in un certo senso stabilizza. Meglio ancora: è il diritto “effettivo” in quanto accertato dall’ordinamento attraverso la mediazione giudiziale dell’interprete. Il dibattito sul tema è del resto un “classico” della scienza giuridica. «I giuristi fanno i conti da due secoli con un dilemma … fondamentale. … da un lato, molti giuristi condividono (qualche versione de) la dottrina della separazione dei poteri, e in particolare la tesi che al giudice spetti solo applicare il diritto creato dal legislatore; d’altro lato, gli stessi giuristi, o almeno gran parte di essi, condividono anche (qualche versione de) la teoria giusrealista dell’interpretazione, e specialmente la tesi che anche il giudice più fedele alla legge non possa non creare diritto [in qualche senso di “creare”]. La contraddizione fondamentale che alberga nel cuore della cultura giuridica degli ultimi due secoli consiste appunto in questo: il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo»... (segue)



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