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di Angela Di Stasi
Alla ricerca di una nozione giuridica di 'embrione umano': il contributo del judicial dialogue tra Corti internazionali
Il 18 dicembre 2014 la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea ha pronunciato la sentenza nella causa C-364/13, International Stem Cell Corporation v. Comptroller General of Patents avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale. Se, nello specifico, la quaestio atteneva alla brevettabilità delle invenzioni che comportano l’uso di ovuli umani e (all’eventuale brevettabilità) delle stesse quando l’ovulo sia fecondato, più in generale, la sua soluzione non poteva prescindere dalla definizione della nozione di «embrione umano» e dal tentativo di precisarne i labili confini, come presupposto per l’individuazione di forme di tutela della vita nascente. Come è noto la forte esigenza di consacrazione normativa di nuovi o rinnovati bisogni dell’essere umano che attraversa le nuove frontiere (della Bio-etica e) del Bio-diritto è tenuta a misurarsi con la circostanza che la presenza, in qualsiasi riflessione giuridica sui tali temi, di aspetti meta-giuridici implica la necessità di confrontarsi con la previa indagine sul contenuto sostanziale, prima che normativo, della nozione di dignità umana. Le difficoltà nella delineazione di uno “statuto” ontologico dell’embrione risultano confermate dalla speculare complessità nella definizione di uno “statuto” giuridico dello stesso sia di fonte nazionale (ambito che esula, evidentemente, da questa trattazione), sia di fonte internazionale. Essa si riflette nell’ambiguità anche lessicale di alcuni atti giuridici internazionali e comunitari che, almeno fino alla fine degli anni Novanta, usavano indifferentemente, addirittura nell’ambito delle stesse disposizioni, espressioni quali “essere umano”, “persona” e “individuo”. La complessità nella disciplina di temi tanto delicati – quali quello relativo alla definizione di embrione umano – e così fortemente condizionati dal progresso delle Scienze della vita è confermato, ad esempio, dal silenzio della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, firmata ad Oviedo nell’aprile 1997, che non definisce la portata dell’espressione “ogni persona” (“everyone”), né quella di “essere umano” (“human being”), né fa riferimento a quando abbia inizio la vita, lasciando pertanto agli Stati piena libertà riguardo all’interpretazione di tali concetti. Al contempo non si rinvengono soluzioni appaganti nell’ambito dei cataloghi di convenzioni dedicate alla tutela dei diritti umani (Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali/CEDU e Convenzione americana di San José) o di quegli atti di diritto derivato dell’Unione europea che, in qualche modo, lambiscono o presuppongono una definizione di embrione umano. Orbene, di fronte a questa (forse, per certi versi, inevitabile) lacunosità delle fonti internazionali, viene in rilievo l’importanza del ruolo esplicato dal giudice che, sia pure nella soggezione alla legge e, più ampiamente al diritto, finisce per svolgere un ruolo anche “creativo”. La dilatazione dei confini dell’interpretazione giudiziale arriva fino al punto di far assurgere al caso concreto il ruolo di fattore di creazione della norma giuridica? L’obiettivo del presente lavoro è quello di verificare l’eventuale emersione di una definizione giuridica uniforme di embrione umano all’interno della giurisprudenza di alcuni corti internazionali a dimensione regionale (Corte di giustizia dell’Unione europea nei casi International Stem e Brüstle v. Greenpeace, Corte europea nel caso Evans v. The United Kingdom e Corte interamericana nel caso Artavia Murillo). Nella più generale valorizzazione del ruolo del giudice nazionale, il judicial dialoguetra corti e tribunali internazionali, inteso come “dialogo a distanza” può fornire – in tali ambiti – un qualche contributo nella costruzione di nuove categorie normative che, nell’essere strettamente dipendenti dall’evoluzione del progresso scientifico, risultano ab origine intrinsecamente caduche?... (segue)
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