Con voto unanime, il 24 settembre 2014 il Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione n. 2178, mediante la quale si impone agli Stati membri di collaborare e porre in essere tutta una serie di misure finalizzate a prevenire il flusso di combattenti da e verso le zone di guerra in cui operino dei gruppi terroristici.In particolare, allo scopo di bloccare il flusso di questi “foreign terrorist fighters” il par. 6 della risoluzione introduce un obbligo di risultato, consistente nel fornire la garanzia che nell’ordinamento giuridico interno siano presenti norme che autorizzino le autorità statali a perseguire e punire (in modo proporzionale alla gravità del reato in discussione) le condotte riconducibili alla partecipazione ad attività terroristiche di gruppi combattenti all’estero. Proprio di tale specifico obbligo mi occuperò in questo breve commento: innanzitutto attraverso l’analisi comparata della risposta normativa approntata negli ultimi anni da parte di tre diversi Paesi (Australia, Federazione russa e Arabia Saudita), alla luce delle clausole della risoluzione; e secondariamente attraverso delle considerazioni di tipo politico, aventi ad oggetto la coerenza delle norme con la stessa raison d'être dell’intervento del Consiglio di sicurezza. A tal proposito, va innanzitutto tenuto conto del fatto che nel settimo considerandum, ma soprattutto al par. 5 della risoluzione 2178 sia espressamente sottolineato che l’attuazione degli obblighi in essa contenuti sia condizionata al rispetto del diritto internazionale dei diritti umani, al diritto internazionale umanitario e al diritto internazionale dei rifugiati. A ragione di ciò, nei mesi a venire si dovranno approfondire e sottoporre ad attento scrutinio tutte le iniziative legislative nazionali, e tanto più quelle mediante cui si sia provveduto a criminalizzare una serie di condotte di natura terroristica, commesse al di fuori dei confini statali e riconducibili alla figura del “foreign terrorist fighter”. Come tale essendo indicato, nella risoluzione, colui il quale viaggia verso uno Stato differente da quello di residenza o cittadinanza allo scopo di perpetrare, pianificare o partecipare ad atti terroristici o di addestrare o ricevere addestramento al terrorismo, anche in relazione ad un conflitto armato (così nell’ottavo considerandum). Alla luce dell’adozione di una simile definizione, appare infine opportuno verificare se possano essere ricondotte nell’alveo di questa figura anche una serie di condotte che diversi Stati – tra cui Federazione russa e Arabia Saudita – avevano precedentemente provveduto a qualificare come terroristiche. Sebbene adottate in tempi diversi e in alcuni casi ben prima della risoluzione del 24 settembre 2014, tali disposizioni potrebbero da un lato rappresentare un primo tentativo di costruzione di un “modello” di risposta alla specifica minaccia rappresentata dai foreign fighters, ma soprattutto potrebbero aiutarci a comprendere le ragioni sottostanti all’azione del Consiglio di sicurezza.
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