E’ ormai un dato ampiamente acquisito dagli studiosi ed esperti del diritto europeo delle migrazioni che tra le criticità evidenziate dalle dinamiche dei flussi migratori nel Mediterraneo vi sia il corretto funzionamento del c.d. sistema di Dublino, ed in particolare l’agire del primo ingresso quale criterio per la determinazione dello Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale. Un segno evidente dell’inadeguatezza di una regolamentazione nata per rispondere a fenomeni di proporzioni ben diverse, il cui caso tipico era rappresentato da domande di singoli richiedenti, e destinata ad operare secondo le poco efficaci regole della cooperazione internazionale, in origine non necessariamente ispirate al principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri di cui all’art. 80 TFUE, è il tentativo messo in atto dal legislatore europeo di intervenire per modificarne la disciplina attuale. Il c.d. rapporto Wikström approvato dal Parlamento europeo ne rappresenta l’esempio più recente e sistematico. Le significative modifiche contenute nella proposta, quasi sempre in senso migliorativo rispetto all’attuale plesso normativo, investono anche il criterio del primo ingresso che di fatto viene superato. Tuttavia, pur costituendo sicuramente una delle disposizioni più controverse e contestate del regolamento UE 604/2013, dopo le conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2018 non sembra azzardato ritenere che tale principio sia destinato a rimanere invece inalterato per lungo tempo, nonostante la volontà riformatrice del Parlamento europeo. In effetti, prescindendo dalle diverse interpretazioni che è possibile attribuire al termine consensus utilizzato nelle conclusioni del Consiglio europeo di giugno in relazione ai requisiti necessari per riformare il regolamento di Dublino, il ricorso per quanto a-tecnico a tale metodo fa emergere, neanche troppo velatamente, la scarsa propensione degli Stati a valorizzare uno degli elementi positivi derivanti dalla “comunitarizzazione” della Convenzione di Dublino, e cioè la previsione della regola della maggioranza per l’adozione degli atti in questa materia. Orientamento questo che si sposa con la decisa opposizione dei c.d. paesi di Visegrad, e non solo, a qualsiasi soluzione ispirata ai principi di solidarietà previsti dall’art. 80 del TFUE. La preferenza del Consiglio europeo per una modifica del sistema per consensus potrebbe rappresentare così una delle chiavi di lettura del perdurante ritardo che accompagna l’esame, da parte del Consiglio, della proposta del Parlamento europeo, discussione questa che non si è ancora aperta forse proprio per la consapevolezza dell’istituzione composta dai rappresentanti degli Stati membri a livello ministeriale dell’orientamento maturato nel contempo in seno alla massima istituzione di indirizzo politico generale della UE. E’ evidente, d’altronde, che la possibile incidenza “politica” delle conclusioni del Consiglio europeo sul processo di riforma non si traduce nel potere di modificare in seno al Consiglio la regola di voto, prevista dai Trattati, eventualità questa già esclusa dalla Corte di Giustizia UE in altra occasione in quanto vietata dal principio dell’equilibrio istituzionale. Dunque di fronte alla staticità della normativa di settore che in mancanza del consenso tra gli Stati non riesce ad assicurare, come purtroppo accaduto anche in altri ambiti, quelle riforme necessarie a garantire una più efficace governance degli attuali flussi migratori, anche sotto il profilo della tutela dei diritti dei migranti, ecco che il criterio del primo ingresso se destinato a rimanere operante per un non breve lasso di tempo, come sembra, continuerà a generare anche le criticità legate alla sua applicazione emerse sino ad oggi… (segue)
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