
La dottrina dello Stato liberale attribuiva al c.d. governo popolare diretto (ciò in cui, secondo Constant, consisteva la “libertà degli antichi”) “un’importanza del tutto secondaria” rispetto al sistema rappresentativo. Precisava Santi Romano, scrivendo poco prima della consultazione popolare del 2 giugno del 1946, che i congegni del governo popolare diretto – la cui origine veniva individuata nei movimenti rivoluzionari di fine XVIII secolo in Francia e negli Stati Uniti d’America, in stretta consonanza con la filosofia contrattualistica (ovvio il riferimento a Rousseau) e giusnaturalistica – si erano venuti “attenuando, nella pratica, a mano a mano che si dimostravano poco compatibili col sistema della democrazia rappresentativa e, specialmente, con il governo parlamentare”. Per ragioni di carattere storico e ideologico il costituzionalismo francese fu portato a valorizzare il concetto di “sovranità della Nazione”, sul quale si sviluppò il principio d’onnipotenza parlamentare, sperimentato appieno nella III Repubblica. Secondo la tradizione illuministica, nello “Stato puramente democratico”, la Nazione – dalla quale emanava ogni potere, secondo la Costituzione del 1791 – non poteva essere rappresentata, perché, in quel sistema “il popolo intero si riserva il diritto di far conoscere le proprie volontà nelle assemblee generali, composte da tutti i cittadini”; ma quando si procede all’elezione di rappresentanti, “a seconda che il popolo si sia riservato maggiore o minor potere, il governo diventa un’aristocrazia, o resta una democrazia”. Al governo parlamentare lo Stato moderno affidava, dunque, la propria concezione di democrazia, facendo appello al principio rappresentativo come strumento per realizzare una “gerarchizzazione delle funzioni”, tale che l’esecutivo e il giudiziario risultassero in posizione subordinata rispetto al legislativo, in quanto titolare della produzione normativa concernente, innanzitutto, i diritti dei cittadini. L’evoluzione di questo sistema politico, com’è noto, fu segnata dalla graduale estensione del suffragio elettorale, sino alla legittimazione dell’intera platea dei cittadini alla “formazione della volontà normativa dello Stato da parte di un organo collegiale, eletto dal popolo in base al suffragio universale ed uguale, e quindi democraticamente, secondo il principio maggioritario”: come ha precisato Kelsen, si trattava della “unica possibile forma reale in cui l’idea di democrazia possa essere attuata nell’odierno contesto sociale”, cosicché “alla sorte del parlamentarismo è quindi legata la sorte della stessa democrazia”. La presenza di una “assemblea popolare che discute e decide” realizzerebbe, in astratto, una democrazia immediata nel senso proprio del termine. Diversamente da tale modello, rivelatosi meramente teorico, nello “Stato rappresentativo” – precisava Jellinek – “l’assemblea popolare, come tale, non si riunisce mai in maniera visibile, bensì non agisce che soltanto a mezzo del voto” su questioni attinenti la revisione costituzionale o la legislazione ordinaria. Su tali basi, all’inizio del XX secolo, la dottrina aveva individuato un significato, per così dire, “minimo” di governo popolare diretto, rinvenendone la concreta attuazione quando, come in Svizzera o negli Stati della federazione statunitense, “una classe politica esercitante in modo esclusivo il potere non esiste, perché tale esercizio, mediante il referendum, il diritto di iniziativa e quello di revisione, è in balia di tutto il popolo”, che dispone di una vera e propria “spada di Damocle che pende sopra ogni disposizione legislativa o costituzionale contraria al volere della maggioranza della comunità”... (segue)
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