
Anni fa, a un convegno genovese sui rapporti Stato-regioni, Massimo Severo Giannini esordì nel proprio intervento con un’affermazione che gli astanti, compreso chi scrive (allora giovanissimo ricercatore), faticarono a intendere univocamente nella sua profondità e che all’incirca suonava così: “Per quanto ripetitivo possa essere il suo tema, nessun convegno è mai inutile”. Ricordo anche che l’organizzatore del convegno non la prese molto bene… L’episodio mi è tornato in mente, quasi per contrasto, a conclusione del convegno “I diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo”, svoltosi a Milano gli scorsi 5 e 6 marzo 2018 sotto l’attenta regia di Paola Bilancia: davvero un convegno utile, sia per il tema in sé, sia soprattutto perché esso è stato l’occasione di una approfondita messa a punto. Quanto al tema in sé, perché, pur trattandosi di un argomento molto arato, è tornato di stretta attualità a seguito della proclamazione congiunta, da parte del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, del cosiddetto “Pilastro europeo dei diritti sociali” (Göteborg, 17 novembre 2017). Per quanto attiene alla messa a punto, essa è consistita nell’approfondimento e nella verifica di una idée reçue assai ripetuta, quella secondo cui la costruzione europea avrebbe trascurato, nella sua genesi e nei suoi primi sviluppi, la dimensione sociale, anzi essa avrebbe fatto sorgere (scrive un autore non proprio accusabile di frettolosità di analisi …) “un’area di economia pura, ossia un’emancipazione dall’economia sociale di mercato”. Al pari dei diritti sociali, oggetto di “pregiudizi” e di “luoghi comuni” (come è stato scritto da altra prospettiva disciplinare), anche il rapporto dell’integrazione europea con essi ha sofferto di un’insufficiente messa in prospettiva storica, di cui il passaggio, appena citato, di Böckenförde dà eloquente testimonianza: se muove da siffatto assunto anche un autore per il quale prospettiva storica e prospettiva dommatica sono sempre state strettamente intrecciate, non stupisce che, per decenni e ancora oggi, si sia continuato a studiare e a insegnare sulla base della premessa circa la “freddezza” sociale del percorso di integrazione europea e che lo spazio dei diritti sociali nell’ordinamento comunitario sia stato considerato storicamente secondario e residuale a fronte di una palese e predominante forza generatrice delle libertà e dei diritti c.d. economici e, per contro, siano state salutate come vere rotture rispetto al passato talune clausole del Trattato di Maastricht e, prima ancora, dell’Atto unico europeo del 1986. Chiarisco: non si vuole negare che, da Maastricht in poi, passando per Amsterdam, per Nizza, per il secondo e meno fortunato trattato di Roma e, infine, per Lisbona, l’evoluzione del diritto primario eurounitario abbia mostrato un elevarsi di “tono” e di “rango” del riconoscimento degli obiettivi sociali dell’Unione e, grazie all’inclusione della Carta di Nizza nel corpo dei trattati, dei correlativi “diritti di solidarietà”, né che la progressiva costruzione di una Unione più politica abbia portato con sé certamente anche l’ambizione a un’Europa più sociale, e reciprocamente. Quello che si vuole semplicemente sostenere è che la c.d. clausola sociale orizzontale dell’art. 9 TFUE, insieme ad altre disposizioni del diritto eurounitario primario, costituiscono uno svolgimento, e non un’alterazione, delle premesse sulle quali la costruzione europea era stata pensata e proposta, e che l’embricazione biunivoca tra sviluppo economicamente sostenibile e rafforzamento della dimensione sociale, lungi dall’essere un abbaglio dei padri fondatori, costituisce un postulato indefettibile anche oggi, a maggior ragione a seguito dell’impatto della crisi economico-finanziaria che ha preso avvio nel 2007-2008. Siano qui sufficienti alcune rapide considerazioni… (segue)
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