Il discorso sulla “Costituzione economica” conduce in un universo concettuale complesso, che si deve percorrere avendo a riferimento categorie teoriche controverse e fluide nel loro ridisegnarsi sotto l’impulso di grandi trasformazioni; sicché i tentativi di sistemazione sono destinati a condurre a esiti non del tutto compiuti, e provvisori. Così, si può parlare – aspirando alla massima ragionevolezza – dei «tre sensi» della locuzione “Costituzione economica”, come ha fatto Sabino Cassese: formula riassuntiva delle norme della Costituzione in senso formale, e delle «leggi di rilevanza costituzionale», sui rapporti economici (in Italia, artt. 41 e 43, relativi all’impresa; artt. 42 e 44 relativi alla proprietà; e, si può aggiungere, integrando quanto enumera Cassese, ma nella stessa logica, artt. 35-40, riguardanti lavoro e relazioni sindacali, e 45-47, sulla cooperazione e sul risparmio); insieme di istituti, inclusi nel diritto, che non appartengono necessariamente alla Costituzione scritta, definiti dalla legislazione di intervento in economia (dalle leggi sui poveri nell’Inghilterra dell’Ottocento di cui parla Albert V. Dicey, alla legislazione sulla concorrenza, sulle partecipazioni pubbliche, ecc.); «prassi applicative» della Costituzione in senso formale e delle leggi, che con tali norme sono spesso in divario, e che sono sostenute da una produzione di regole collocate sotto lo strato della legislazione e dei regolamenti (per esempio, le circolari). Se a quella dei «significati» si accompagna l’enunciazione dei «metodi di studio» o, più esattamente, dell’oggetto di studio, del designatum, con altrettanta articolazione – dicendo che esso è costituito dalle relazioni pubblico-privato (o, si potrebbe preferire, dalle relazioni tra libertà economica e poteri di regolazione pubblica, o, più ellitticamente e radicalmente, dal rapporto tra autorità e libertà: il lessico, in questo campo, è ideologicamente orientato in senso forte), dalle politiche di settore, dalle politiche generali – si può avere netto il convincimento di una definizione aperta e onnicomprensiva, capace di contenere la complessità della “Costituzione economica” come fenomeno. Eppure, anche questa definizione – la migliore possibile, tra quelle che aspirano a esiti ricostruttivi sistemici – non riesce ad addomesticare la complessità dell’universo “Costituzione economica”. Una complessità che si ripropone quando le prime risposte inducono nuove domande. Così, postulato che la Costituzione economica è fatta (anche) di «norme costituzionali in senso formale», occorre chiedersi quali siano queste norme. Alcune di quelle portate solitamente a esempio sono evidentemente, perfino dichiaratamente, riconducibili a tale campo. Ma molte altre, di tenore più generale, o collocate in altre partizioni del testo costituzionale, sono destinate ad avere un’incidenza talvolta altrettanto diretta sulle relazioni economiche. A partire dal principio di eguaglianza, in uno scenario di riferimenti culturali e di premesse assiologiche in cui le teorie economiche si collocano lungo una grande linea di separazione-opposizione tra chi assume la diseguaglianza come un disvalore e chi la ritiene il motore dello sviluppo e della crescita, dunque un valore. Si potrebbe osservare che è solo questione di interpretazione sistematica, bastando leggere in adeguata connessione, nel caso italiano, le norme del Titolo III della Parte I e l’art. 3 della Costituzione. Ma così non è, o almeno non è per orientamento sufficientemente generalizzato, per la tendenza a considerare le disposizioni sui rapporti economici come un nucleo in sé conchiuso, restituzione normativa delle leggi obiettive che regolano l’economia, autoprodotte dagli attori che in essa operano e che le sue dinamiche determinano. E, quando non riescono a “restituire” adeguatamente la realtà delle relazioni economiche dando campo alla forza degli spiriti che in essa soffiano, a quelle norme è impresso lo stigma dell’incapacità a comprendere e dell’arretratezza. E il principio di eguaglianza recede lontano sullo sfondo, programma nobilmente astratto. Analoga la sorte del principio personalista, potenzialmente idoneo ad orientare le relazioni economiche moderando la tendenza ad assolutizzare i fattori di efficienza della produzione… (segue)
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