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Nell’ambito di una riflessione generale sulla disciplina del potere regolamentare e sulle garanzie che devono accompagnarne l’esercizio, appare opportuno svolgere alcune brevi considerazioni su un recente, inedito, esempio di “fuga dal regolamento”, tanto più grave in quanto interessa un settore nevralgico nell’attuale contesto giuridico ed economico, come è quello dei contratti pubblici. Come significativamente evidenziato proprio in relazione a tale fenomeno da un’autorevole dottrina togata, la catalogazione tradizionale delle fonti di produzione delle norme giuridiche, “concepita con riferimento a un assetto economico-sociale ottocentesco, è entrata in crisi per effetto delle sollecitazioni dell’economia globalizzata, che esige una regolazione più flessibile, veloce e meno formale”. La crisi più evidente ha colpito proprio la normazione secondaria. I regolamenti governativi, legati allo schema procedurale tipico stabilito dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988, coerente con la tesi che legge nella Costituzione la previsione di un'unica fonte normativa secondaria nella forma regolamentare, vengono, sempre più spesso, percepiti come strumenti obsoleti, di formazione troppo complessa, inidonea a soddisfare le istanze, dinamiche e mobili, del mondo produttivo. In nome della preminenza del mercato sulla politica, si assiste così a un processo di progressiva erosione della sfera della (unica) fonte di regolazione autoritativa prevista dalla Costituzione e disegnata (e delimitata) in ambito statale dalla legge del 1988 nel quadro del principio generale di legalità degli atti amministrativi, in favore di strumenti di c.d. normazione flessibile, atipica e concertata, che si pongono ai confini della compatibilità costituzionale e rischiano di indebolire proprio le fondamentali garanzie dello Stato liberale, sottraendo la produzione delle regole destinate a limitare le posizioni soggettive dei consociati alle Autorità a tal fine democraticamente legittimate... (segue)
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