
Quando il 9 settembre 2015, nel corso del suo primo discorso sullo stato dell’Unione, il Presidente Juncker lanciava l’idea di un’ampia consultazione pubblica per l’implementazione del cd. “pilastro europeo dei diritti sociali”, l’iniziativa veniva salutata come un giro di boa rispetto all’atteggiamento di scarsa attenzione, se non proprio di indifferenza, che – secondo la più diffusa lettura – la UE avrebbe tradizionalmente manifestato verso tale particolare categoria di diritti fondamentali. Una tiepidezza, che – in base alla comune ricostruzione – avrebbe connotato lo stesso diritto dei Trattati sin da quello istitutivo di Roma del 1957. La ragione viene usualmente ricondotta alla (presunta) vocazione esclusivamente economica dell’istituenda Comunità europea, giacché essa si sarebbe (pre)occupata esclusivamente di garantire le libertà economiche e, più generale, di assicurare il buon funzionamento del mercato comune. Invero, alla luce della separazione delle competenze, le politiche di Welfare sarebbero rimaste appannaggio degli Stati, investiti, pertanto, del compito di provvedere ad assicurare la protezione sociale dei propri cittadini, in linea con il modello di Stato sociale accolto, sia pur con diverse intonazioni e differente intensità, dai Paesi istitutivi della Comunità. Quest’ultima avrebbe mantenuto soltanto un margine residuo di intervento nei casi – da considerare del tutto eccezionali – in cui l’edificazione del mercato comune avesse innescato fenomeni di concorrenza sleale basati sulla riduzione degli standards interni di protezione sociale dei singoli Paesi. Solo in questa ipotesi – e, pertanto, pur sempre a garanzia della più ampia libertà del mercato – la Comunità avrebbe potuto adoperarsi a correzione degli squilibri, assicurando l’armonizzazione dei sistemi sociali nazionali attraverso l’estensione del modello sociale maggiormente protettivo. Tale iniziale “frigidità sociale” europea – come pure è stata definita – avrebbe cominciato ad attenuarsi soltanto con l’approvazione dell’Atto unico del 1986 (e la successiva approvazione nel 1989 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori), che condusse la Comunità a porsi espressamente come obiettivo prioritario la coesione economica e sociale (attraverso la quale mirare a controbilanciare gli squilibri del mercato all’interno degli Stati membri meno sviluppati e a ridurre il divario tra le diverse regioni europee), che, però, verrà istituzionalizzata come politica delle Comunità – e, pertanto, sviluppata – solo con il successivo Trattato di Maastricht, con cui le competenze comunitarie in materia sociale vennero ulteriormente estese (negli artt. da 130A a 130B, in seguito artt.158-162 TCE). E ciò nonostante le resistenze inglesi conducessero a far refluire in un Protocollo aggiuntivo (il n. 14, intitolato “Accordo sulla politica sociale”, nemmeno ratificato, poi, dal Regno Unito) una parte rilevante della materia sociale, tra cui la previsione che estendeva la procedura di votazione del Consiglio a maggioranza qualificata a materie quali l’ambiente; il miglioramento delle condizioni di lavoro, dell’informazione e della consultazione dei lavoratori; le pari opportunità tra uomini e donne per ciò che concerne l’accesso al mercato del lavoro; e l’integrazione delle persone emarginate da esso. Sarebbe invece rimasto assente a Maastricht ogni riconoscimento di veri e propri diritti sociali, nonostante tale Trattato – come noto – introducesse la cd. cittadinanza comunitaria. Con il successivo Trattato di Amsterdam (1999), invero, sarebbe emerso nel diritto dei Trattati il principio del coordinamento delle politiche dell’occupazione, sia pur nel quadro delle esigenze di bilanciamento tra la diversità delle misure nazionali (in particolare con riferimento alle relazioni contrattuali) con il necessario mantenimento della competitività del mercato comune (art. 136 TCE), mentre si sarebbe dovuta attendere l’elaborazione del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” (2004) affinché quella europea cominciasse ad essere delineata come “economia sociale di mercato”, per quanto poi l’entrata in vigore della (impropriamente detta) “Costituzione europea” finisse per naufragare nelle urne dei referendum di Olanda e Francia, per la preoccupazione, fra l’altro, che l’Unione non assicurasse ai cittadini europei una protezione sociale adeguata agli standards conosciuti all’interno dei sistemi di welfare dei Paesi membri. E’ noto, peraltro, a conclusione di questo – necessariamente sintetico – excursus storico-normativo, che solo con la Carta di Nizza-Strasburgo dei diritti fondamentali (2000-2007) si impose a livello europeo il problema del riconoscimento e della garanzia dei diritti sociali, che infine irrompe nel diritto primario con l’attribuzione alla Carta della stessa efficacia giuridica dei Trattati ad opera del Trattato di Lisbona (Art. 6, par. 1 TUE)... (segue)
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