Il nostro discorso intorno al diritto di accesso può partire da un’affermazione: l’accesso come pretesa del cittadino a che lo Stato stenda sull’intero territorio nazionale la rete a banda larga, così da consentire a chiunque di servirsene ovunque lui risieda e a un prezzo abbordabile. Il cittadino digitale conseguirà un vantaggio una volta che il soggetto pubblico abbia adempiuto alla sua prestazione: potrà telefonare tramite Internet, partecipare alle comunità virtuali o ricevere i servizi virtuali dall’amministrazione. E fin qui ci siamo limitati a riproporre il nostro originario disegno dell’accesso coerente con la fattispecie “diritto sociale”: invero, l’obbligo di garantire la disponibilità della connessione veloce favorisce la partecipazione attiva del cittadino alla società dell’informazione e al tempo stesso inventa modalità inedite di esercizio della democrazia, capaci di rivitalizzare il dialogo tra rappresentante e rappresentato. Effetti questi, dovuti tutti alla capacità della rete di asciugare le distanze tra remoti, di azzerare le differenze di età e di livellare le impari condizioni fisiche, ma chiariamo subito che questo esito benefico dipende da una precisa condizione: la regolazione su Internet deve essere eteroguidata verso l’obiettivo uguaglianza, perché se lasciata da sola non è in grado di procurare il common good. Infatti, dimostratosi illusorio il mito della tecnica come fatto buono in sé, l’evoluzione tecnologica sarà disciplinata dalle regole dettate dai privati forti, che la piegheranno ai loro esclusivi progetti di egemonia economica sul mercato o informativa sull’opinione pubblica. L’accesso alla rete, così inteso, rende uguali coloro che tali non erano a causa delle differenti condizioni di partenza: agisce come una leva capace di rimuovere gli ostacoli materiali ed economici che si frappongono al pieno sviluppo della persona (art. 2 Cost.), consentendole l’effettivo esercizio delle libertà fondamentali, quali la manifestazione del pensiero e la comunicazione intersoggettiva, nell’ambiente digitale. La missione equilibratrice del diritto di accesso, in definitiva, lo rende funzionale all’uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3 Cost. Fino a qualche anno fa voci isolate sostenevano l’appartenenza dell’accesso al genus diritti sociali; oggi la dottrina reputa incontestabile questa inclusione. Rimane invece ancora aperta la domanda se questo diritto digitale abbia caratteristiche tali da isolarlo dal modello di riferimento; oppure se le deviazioni non ne impediscono l’appartenenza. Ebbene, il diritto di accesso si presenta con attributi suoi propri, che non sono atipici al punto da configurare una deroga dal genus di riferimento; ne consegue che l’accesso non gode di una posizione a sé stante nel panorama dei diritti sociali, sebbene presenti peculiarità significative. Queste particolarità recano “indicazioni di prospettiva”, che si risolvono nel valorizzare la dimensione dinamica del diritto di accesso, che, lasciatosi alle spalle l’immagine statica coincidente con la sola prestazione sociale, guarda al bene ultimo cui l’accesso tende. La suggerita lettura teleologica dell’accesso lo promuove a strumento indispensabile per esercitare sul terreno digitale altre situazioni soggettive: libertà fondamentali e/o economiche, sempre che Internet lo permetta. Ci preme sottolineare che quando si parla di accesso a Internet si incontrano e si mescolano più piani: uno è quello dell’intervento individuale del cittadino – titolare del diritto di accedere a Internet – l’altro, quello macroeconomico, è il luogo di incontro tra operatori di rete e fornitori di contenuti; il giurista dovrà tener conto di questo complicato intreccio se intenderà ideare una regolazione reasonable alla consistenza effettiva di Internet. Indicheremo prima i tratti comuni tra il diritto di accesso e i diritti sociali, e solo dopo le differenze. Ricordiamo la limpida definizione di Mazziotti di Celso sui diritti sociali: pretese a che lo Stato faccia quel quid satisfattivo rivendicato dall’individuo. Così il diritto a stare bene si realizza con la prestazione sanitaria resa in conformità a certi parametri, perché in quel preciso momento la risposta pubblica incontra la domanda collettiva di godere di buona salute. Il fatto che il bisogno sia comune ai consociati non comporta per lo Stato il dovere di rendere la prestazione a chiunque, o almeno questo obbligo generalizzato si attenua in proporzione alle capacità di spesa di ciascuno perché in tempo di crisi all’etica dell’universalismo dei diritti sociali come l’uguaglianza formale vorrebbe, sintetizzabile nel dovere di dare tutto a tutti, è subentrato il relativismo avaro nei beneficiari e nelle prestazioni, come l’uguaglianza sostanziale giustifica. Lo diceva bene Luigi Ferrajoli: lo Stato deve fare un passo avanti, si deve muovere in direzione di coloro che hanno bisogno, non anche verso chi è già libero dalla necessità. Il diritto sociale in questo spostare flussi di ricchezza da chi ha a favore di chi non ha realizza una finzione: pone sulla stessa linea persone partite da punti diversi, iniziando così il suo percorso costituzionalmente orientato verso l’uguaglianza sostanziale (art. 3, 2 co., Cost.)… (segue)
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